La Liga del Leòn e la partita del Veneto. Vittorio Veneto o Caporetto?
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Umberto Baldo
La storia ci ricorda che quando Napoleone Bonaparte, sulle ali delle idee di “Libertè, Egalité, Fraternité” della Rivoluzione Francese arrivò in Veneto, le nostre genti lo accolsero non come un liberatore, bensì come un invasore, come un usurpatore che metteva fine agli undici secoli di vita della Repubblica Serenissima, e che nelle “insorgenze” che ne seguirono (palesemente inutili dal punti di vista militare) i popolani, i contadini, i cittadini, presero le armi contro i francesi al grido di “Viva San Marco”.
Parto da lontano, forse a qualcuno potrà sembrare da troppo lontano, ma credo sia utile non trascurare questo attaccamento dei veneti alla loro “Repubblica del Leone” per spiegare che quel rapporto ideale, quel desiderio di autonomia, quel rifiuto di dominanze esterne, nonostante tutto è ancora ben presente nel Dna della nostra gente. E non è un caso, a mio avviso, che il sia pur sgangherato assalto del 1997 al campanile di San Marco da parte dei cosiddetti “Serenissimi”, sia avvenuto proprio in Veneto.
Qualche giorno fa, affrontando la questione del dopo Zaia, l’ho definita un rebus (https://www.tviweb.it/i-flop-di-salvini-ed-il-rebus-del-dopo-zaia/), ma vi avevo detto che giocoforza ci sarei dovuto tornare a breve.
Già, perché stando alle cronache, nella Lega comincia a tirare una brutta aria, ed il Veneto rischia di diventare una sorta di “Sarajevo” per Salvini.
Al di là di tutti i ragionamenti, di tutte le analisi, di tutti i tatticismi, era scontato che il disastro delle ultime regionali scoperchiasse malumori trattenuti e contraddizioni irrisolte.
Senza tanti giri di parole, o di sottili elucubrazioni, io mi limito ad osservare che la Lega Nord (e sottolineo quel Nord) di Umberto Bossi offriva ai cittadini delle Regioni settentrionali, giusta o sbagliata che fosse, la prospettiva di una secessione, di un affrancamento da “Roma ladrona”, di una “Padania libera”.
Matteo Salvini, dopo i fasti raggiunti alle regionali del 2019, non adeguatamente capitalizzati, dopo aver fallito la “calata leghista al Sud”, dopo una non adeguata battaglia (secondo certa base leghista) per l’Autonomia Differenziata, al di là di cercare di cavalcare le vicende internazionali, in casa propria sembra avere sempre meno argomenti per catalizzare iscritti e simpatizzanti.
E di conseguenza all’ultimo Comitato Federale sono comparse le prime critiche, e fra queste quelle di Luca Zaia, concentrate in particolare sul tema dell’Autonomia (ma Zaia, come è ormai nel suo stile, ha poi cercato di minimizzare le contrapposizioni).
In estrema sintesi mi sembra di poter dire, o almeno mi sembra di aver capito, che la base della Lega imputa a Salvini di non avere una linea politica degna di questo nome da poter spendere sui territori, con l’aggravante di aver abbandonato i temi storici del Nord; concetto ribadito anche da Zaia, che avrebbe affermato che cedere il Veneto a FdI significherebbe più o meno “chiudere” la Lega.
Ecco perché, nei fatti, la questione veneta sta montando come panna, di ora in ora, tra i dirigenti ed i militanti del partito di via Bellerio.
Evidentemente ai “capi intermedi” non è sfuggito che, a parte la figuraccia di aver imposto in Umbria la candidatura perdente della Tesei, è l’Emilia Romagna a rappresentare un vero “annuncio di disfatta”.
Già, perché Emilia-Romagna, a differenza dell’Umbria, è Nord Italia.
E una Lega che in una Regione del Nord viaggia intorno al 5 per cento, dove solo cinque anni fa, ai tempi d’oro del salvinismo gialloverde, veleggiava al 30, fa rumore e anche un po’ paura alla dirigenza del Partito.
Ecco perché, assieme al sospetto che Salvini il Veneto se lo sia già venduto alla Meloni, si diffonde sempre più l’idea che la “Terra di San Marco” rappresenti una sorta di “linea Maginot”, sfondata la quale per la Liga del Leòn, e alla fine per il partito che fu di Umberto Bossi, suonerebbe il De Profundis.
Questo è il vero motivo per cui all’interno della Liga Veneta le distanze fra le varie posizioni e componenti si sono di fatte azzerate.
Ed infatti leggiamo che il segretario Alberto Stefani ed il Capogruppo in Regione Alberto Villanova non escludono la possibilità di una “corsa solitaria” della Lega qualora il candidato non fosse dei “loro”, posizione che si allinea a quella del “bulldog” Roberto Marcato quando dichiara: “Sono felice che il mio Partito, la Liga Veneta, abbia abbandonato, finalmente, l’incomprensibile “decide Roma”.
Parole che alle orecchie dei leghisti della prima ora suonano come cori angelici!
Ma vedete, sapete che io sono anche un po’ “materiale”, attento cioè agli interessi di bottega o personali, che spesso vengono nascosti dietro posizioni ideali.
E in quest’ottica “dietrologica” i conti che stanno facendo i maggiorenti della Liga mi paiono abbastanza chiari.
E sono sostanzialmente legati ai freddi “numeri”.
Già perché i Parlamentari hanno realizzato che con i voti ottenuti dalla Liga nelle ultime tornate elettorali sarà sempre più difficile tornare a sedersi alla Camera ed al Senato; e analogamente gli attuali Consiglieri regionali sanno bene che con i sondaggi attuali (ed un’eventuale Capolista di FdI) gli scranni leghisti a palazzo Ferro Fini potrebbero scendere da 34 a 6, ben che vada 7.
Una prospettiva da far gelare il sangue nelle vene a chi si vedeva ormai quasi stabilmente accasato in Consiglio regionale.
Tra i leghisti della vecchia guardia pesa il calo dei consensi, più smaccato proprio nelle roccaforti lombarda e veneta, dove la Lega è ferma al 10, massimo 15 per cento. E pesa pure la leadership salviniana, sempre più sott’accusa per aver trascurato l’anima più “economica” vicina alle imprese del Nord, virando invece sul ponte sullo Stretto.
Per non dire che la “Lega istituzionale”, quella dei Governatori e dei Sindaci, intende ancora essere il punto di riferimento delle aziende e delle genti del Nord, e non certamente la sezione italiana dell’internazionale nera, da Vox ad Alternative fur Deutschland, per finire a Trump (i cui dazi sarebbero esiziali per le nostre imprese).
Capite bene che la situazione è più “magmatica” di quelle che si riscontra sull’Etna o sullo Stromboli, anche se, a onor del vero, Bruno Vespa (spesso ben informato) ha scritto nei giorni scorsi che Giorgia Meloni sarebbe in realtà più interessata alla Lombardia (dove alla europee FdI ha incassato il 31,79% contro il 13,09 della Lega ed il 9,31 di Forza Italia) che al Veneto.
In questa chiave il Veneto sarebbe un falso obiettivo per ottenere la guida della più importante regione d’Italia (Salvini dovrebbe però convincere i suoi compagni lombardi).
Ma è anche vero che le prossime regionali in terra lombarda sarebbero nel 2028, per cui Giorgia Meloni potrebbe trovarsi di fronte al classico dilemma “meglio l’uovo oggi o la gallina domani?”, e non è detto che scelga la gallina.
Poi come sempre si usa fare in politica, si pensa a varie alternative; e per uscire dallo stallo potrebbero materializzarsi due piani B: l’offerta di un Ministero, che Salvini potrebbe strappare agli alleati di governo, ammesso che “’na carèga romana” accontentasse le ambizioni di Zaia; oppure la candidatura alla poltrona da sindaco di Venezia, dove si voterà tra il 2025 e il ’26, lasciando a FdI il timone della Regione.
Un’ipotesi, quest’ultima, che però Zaia e i suoi al momento sembrano non prendere nemmeno in considerazione.
Quindi è presumibile che nell’’immediato futuro Luca Zaia vada avanti con la sua idea che: «La questione settentrionale è quanto mai attuale, anche perché del Nord ci si occupa sempre meno».
Salvini avrà quindi di che spremersi le meningi, oltre che mercanteggiare con Giorgia Meloni, anche perché, parafrasando la “canzone del Piave”, dalla base veneta continuerà a passare di bocca in bocca come un mantra il famoso grido “Non passa lo straniero!”.
Ci ritorneremo su, perché sarà sicuramente interessante vedere se la questione della guida del Veneto per la Liga del Leòn si risolverà in una Vittorio Veneto, od in una Caporetto.
Umberto Baldo