26 Giugno 2024 - 11.03

La marea travolgente di fake news in libertà sui social

di Alessandro Cammarano

Le fake news, o notizie false, rappresentano uno dei fenomeni più abominevolmente dilaganti dell’era digitale; informazioni, deliberatamente fabbricate o manipolate per ingannare, si diffondono rapidamente grazie ai social media e ad altre piattaforme online, influenzando l’opinione pubblica e, talvolta, persino le decisioni politiche.

Le fake news non sono un fenomeno nuovo: la prima “bufala documentata risale ai tempi del più famoso dei faraoni, ovvero Ramsete Secondo.

Il suddetto Ramsete decise di far guerra al re ittita Muwattali nel 1274 a.C.: i due eserciti si scontrarono a Quadesh, sulle rive del fiume Oronte, e gli egiziani vinsero per una serie di colpi di fortuna portandosi a casa un ricco bottino; la vittoria fu comunque effimera perché gli Ittiti riconquistarono rapidamente i territori perduti.

Il faraone però, con un’operazione di marketing perfetta fece passare una scaramuccia per la più grande vittoria militare e politica di sempre, facendola raffigurare su un gran numero di templi e commissionando ai poeti di corte una narrazione epica che glorificasse lui stesso e la sua “impresa”.

Da lì in avanti di balle per manipolare l’opinione pubblica se ne sono inventate a bizzeffe, ma con l’avvento di internet e, in particolare, dei social media, la capacità di creare e diffondere notizie false è aumentata esponenzialmente.

Ma mettiamo un po’ d’ordine, anche perché non tutte le fake news sono uguali e dunque possono essere ripartite secondo diverse categorie:

La prima è quella della disinformazione, che si basa su Informazioni intenzionalmente false create per ingannare il pubblico.

Segue la cosiddetta misinformazione, ovvero asserzioni false diffuse senza malizia, spesso a causa di errori o fraintendimenti; categoria per latro sempre più rara.

C’è poi la vecchia propaganda, fatta di informazioni manipolate per favorire una particolare agenda politica o ideologica.

Rientrano nell’universo della bufala anche la satira e la parodia, che nate creati per divertire vengono fraintesi – e qui l’analfabetismo funzionale dilagante ci mette lo zampino – e presi per autentici.

Infine, c’è il fenomeno legato al cosiddetto “clickbait”, vale a dire titoli sensazionalistici progettati per attirare l’attenzione e generare clic, spesso a scapito della veridicità.

Tristemente il fenomeno è in aumento esponenziale anche grazie al proliferare di diversi fattori, capaci di sfruttare i punti deboli degli utenti, sempre più superficiali e portati a prendere per buona qualsiasi notizia provenga dalla rete in quanto percepita – a torto – come verità assoluta

Di chi è la colpa? Innanzitutto, dei social media – in particolare X e TikTok, ma anche la moribonda Facebook fa la sua lercia parte – che si servono di algoritmi sempre più sofisticati in grado di proporre contenuti popolari e coinvolgenti, indipendentemente dalla loro veridicità e soprattutto mirati a specifiche categorie di utenti.

Questo crea un terreno fertile per le fake news, che spesso sono progettate per essere particolarmente accattivanti.

Tutto ciò genera le cosiddette “Echo chambers”, che si spiegano col fatto che gli utenti tendono a seguire e interagire con persone e fonti di informazione che confermano le loro opinioni preesistenti, creando dunque “camere dell’eco” in cui le fake news possono prosperare senza essere contestate.

Il tutto con buona pace dello spirito critico che dovrebbe essere alla base di qualsiasi ricerca di informazione.

Oggi più che mai si prende tutto per oro colato semplicemente “perché lo dice internet”, un po’ come ai tempi dell’Unione Sovietica, quando se la Pravda scriveva che una giraffa volante era stata avvistata sulla Piazza Rossa allora era vero di sicuro.

In mezzo a questo orrido ginepraio di falsità come si comportano i social media?

La risposta è “malissimo”, anche perché dalla condivisione di qualunque cosa, vera o fasulla che sia, essi traggono enormi vantaggi.

Segnalare una notizia falsa, o ancor peggio un’istigazione all’odio o alla violenza, è tempo sprecato perché l’orrendo algoritmo “ragiona” secondo schemi tutti suoi. Provate a segnalare una fake su TikTok… e vedrete. Nel 99% dei casi nessun provvedimento. Eppure è spesso facile riconoscerle. L’utente che pubblica scrive in un italiano colmo di errori grammaticali. Non cita le fonti (cosa fondamentale). Incolla a foto di personaggi presunte frasi pronunciate, quasi sempre non vere.

Ecco dunque che se qualcuno scrive che “i campi di sterminio nazisti erano meglio di un villaggio vacanze” o che “Stalin è stato un benefattore dell’umanità” e qualcuno segnala al social media di turno la gravità dell’affermazione, la risposta degli “amministratori” è invariabilmente la seguente. “Il posto che ci hai segnalato non viola gli standard della comunità”.

Lo stesso accade se qualcuno, riferendosi a persone specifiche auguri loro la morte o di rimanere invalida permanenterete.

Però l’algoritmo beota è anche puritano, in pieno stile “American hypocrisy” e cancella senza pietà il post in cui hai pubblicato una Madonna fiamminga che allatta il Divin Fanciullo perché una tetta dipinta nel quindicesimo secolo “è immagine pornografica”.

Che fare? Magari ricominciare a dubitare, perché è dal dubbio che sono nate le grandi scoperte e le grandi rivoluzioni.

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