6 Febbraio 2024 - 9.40

La notte che cambiò il pop

Umberto Baldo

Vi sarete accorti che raramente mi applico al commento di un film o di un libro. 

E questa mia scarsa propensione alle recensioni probabilmente si deve ad una ritrosia a condizionare chi mi legge, in quanto sono convinto che lo stesso libro, o lo stesso film, suscitano reazioni, ma soprattutto emozioni diverse da persona a persona, ed è giusto che ognuno sia libero di scegliere quel che più lo attira, e giudicarlo senza essere influenzato. 

Oggi però faccio un’eccezione, a favore di un documentario dal titolo “La notte che cambiò il pop”, che si può vedere da qualche giorno su Netflix, e che narra la nascita ed il dietro le quinte di “We Are the World”,  diventata una delle canzoni simbolo degli anni ’80.

Per chi in quegli anni non era ancora nato ricordo che siamo esattamente nel 1985, e che nel biennio 1983-85 l’Etiopia subì una delle più gravi carestie della sua storia (si parla di un milione di morti).

Allora l’Africa non era conosciuta come adesso, le sensibilità erano molto diverse, e da quel continente arrivavano in Occidente solo echi lontani.

Non lo ricordavo, ma “We Are The World” è stata preceduta da “Do They Know It’s Christmas”, una canzone frutto di un’idea di Bob Geldof, che mise in piedi il Gruppo anglo-irlandese “Band Aid”, composto da cantanti famosi, e che con quel brano raggiunse la vetta delle classifiche natalizie nel 1984, i cui proventi furono destinati ad aiuti all’Etiopia.

“We Are The World” nacque quindi come una risposta della comunità dei cantanti neri alle iniziative benefiche per l’Africa dei cantanti bianchi, e l’idea venne partorita dalla mente del leggendario attivista, attore e cantante afroamericano Harry Belafonte, che per realizzarla si affidò al produttore Ken Kragen.

Ovviamente non voglio togliervi la curiosità di guardare il documentario, che dura un’ora e mezza circa, e che ripercorre passo passo la non facile organizzazione dell’evento.

Kragen affrontò da subito il problema di base; vale a dire chi doveva scrivere il brano musicale, e la sua scelta cadde su Lionel Ritchie e Michael Jackson.

Il documentario si sofferma quindi, con il commento proprio di Lionel Ritchie,  nella narrazione di come nacque materialmente il pezzo, nota dopo nota, parola dopo parola.

La fase successiva era ovviamente quella di individuare chi lo avrebbe cantato.

Poiché si volevano coinvolgere più artisti possibili, ci si rese subito conto che, trattandosi di stelle internazionali, al top della notorietà, i loro impegni erano tali da rendere impossibile un loro coinvolgimento simultaneo.

Qualcuno realizzò che l’occasione poteva essere solo la cerimonia degli American Music Awards, una specie di premio Oscar per i musicisti, al quale sicuramente avrebbe partecipato il gotha dei cantanti di quel momento.

Si capì cioè che l’unica possibilità di coinvolgere tutte quelle stelle era registrare il brano (in gran segreto) alla fine della cerimonia degli Awards. 

E così la notte del  28 gennaio 1985 agli  Hollywood A&M Studios  arrivarono 45 grandi artisti (fra cui Bob Geldof e Dan Aykroyd, gli unici non statunitensi). 

Alle voci soliste si alternarono ventuno cantanti, tra i quali Lionel Richie, Michael Jackson, Stevie Wonder,  Steve Perry, Kenny Rogers, Diana Ross, Ray Charles, Tina Turner, Cyndi Lauper,  Kim Carnes, James Ingram, Kenny Loggins, Willie Nelson, Billy Joel, Bob Dylan, Huey Lewis,  Daryl Hall,  Paul Simon, Bruce Springsteen e Dionne Warwick.

Si può dire che non mancava nessuno dei “grandi” di quegli anni, a parte Madonna, che non si capì mai se non volle o non la vollero. 

Quando gli artisti arrivarono agli Studios trovarono un cartello sulla porta dello studio, affisso da Quincy Jones, che recitava: «lascia il tuo ego alla porta»; era un promemoria divertente per ricordare che il gruppo era riunito per uno scopo più grande.

A proposito, il SuperGruppo assunse il nome di “Usa for Africa”,  dove Usa era l’acronimo di “United Support Artists”.

La registrazione del pezzo fu ultimata intorno alle 8 del mattino del giorno seguente.

Si può proprio dire che il miracolo avvenne “tutto in una notte”.

Il documentario di Netflix, che utilizza preziosissimo materiale d’archivio realizzato durante la registrazione, è il racconto di quella notte, e dà a chi lo guarda l’impressione quasi di sbirciare dietro le quinte di quell’ensemble irripetibile di icone musicali, e credetemi che offre un’infinità di piccole curiosità e aneddoti finora rimasti sconosciuti. 

E così, solo per fare qualche esempio,  si vede Stevie Wonder che aiuta Ray Charles, entrambi non vedenti, ad andare in bagno, o Diana Ross che chiede l’autografo a Daryl Hall, così quasi costringendo tutti gli altri partecipanti a raccogliere le rispettive firme sugli spartiti.

Per quanto mi riguarda la scena che più mi ha colpito non è quando Al Jarreau è talmente ubriaco da non riuscire a beccare le note;  non quando Sheila E taglia la corda irritata perché capisce d’essere stata invitata solo per attirare Prince, suo ambitissimo datore di lavoro;  non è quando Bruce Springsteen reduce da una serie di concerti faceva sentire una voce come se avesse pezzi di vetro in gola , e non è  nemmeno quando Waylon Jennings se ne va rifiutandosi di cantare in swahili come suggeriva Stevie Wonder, una roba che comunque alla fine non farà nessuno. 

La scena migliore del documentario “We Are the World: La notte che ha cambiato il pop” per me riguarda Bob Dylan, una leggenda della musica.

Un Bob Dylan spaesato, che quasi non sa spiaccicare due strofe della canzone.  

Un Dylan ripreso in un momento di palese difficoltà, quando ormai è quasi l’albae non riesce a cantare il suo assolo. 

Bellissima la scena quando Quincy Jones prova ad aiutarlo senza riuscirci; e quella in cui a risolvere la situazione è Stevie Wonder. 

Come? Sedendosi al pianoforte e imitando la voce di Bob, per farlo sorridere e distendere così il clima.

Volendo riassumere tutto in poche parole, direi che questo documentario è soprattutto uno sguardo negli occhi e nel cuore di quelle grandi star. 

Guardandola loro ansia, la voglia di far bene, il mettersi a disposizione di una causa giusta, il capire che esserci può significare far qualcosa di grande, oppure non capirlo per niente ma realizzarlo nel momento in cui si è messo piede nella sala di registrazione. 

Artisti spogliati dal proprio ego, indifesi di fronte al microfono, con la paura di far brutta figura davanti ai colleghi.

Non ricordavo il particolare che il 5 aprile 1985 più di 5.000 stazioni radio in tutto il mondo trasmisero in contemporanea il brano, che vendette più di 20 milioni di copie, e che raccolse fondi per più di 100 milioni di dollari, interamente utilizzati per alleviare le sofferenze della popolazione dell’Etiopia.

A questo punto rischio di cadere nella retorica o nella fiera dei buoni sentimenti, per cui chiudo affermando che a mio avviso poche canzoni hanno fotografato un’epoca, rappresentato un fenomeno di costume, ed un movimento sentimentale, come We are the world.

E a coloro che in quegli anni c’erano dico; guardatelo se potete questo documentario, perché, credetemi, l’emozione arriva ancora come un pungo nello stomaco, sulle note di quel brano pop che ancora oggi suona perfetto, attraverso il messaggio che ha voluto mandare, e che ti fa dire “ma come è possibile che siano passati 39 anni?”.

E consiglio di guardarlo anche a coloro che non erano ancora nati, perché è una cosa bella, quasi un piccolo capolavoro, che forse vi farà comprendere meglio i tempi dei vostri genitori o dei vostri nonni, quando appunto si cantava “Noi siamo il mondo, noi siamo i bambini, noi siamo quelli che un giorno renderanno il giorno più luminoso……”

Buona visione.

Umberto Baldo

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