La scuola ieri e oggi: rapporti ribaltati con i bimbi sovrani e i genitori feroci vassalli

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Di Alessandro Cammarano
Fino a qualche anno fa, neppure tanti la scuola era un’istituzione rigidamente gerarchica, dove il rispetto per i professori era imposto attraverso un misto di autorità, disciplina severa e distanza tra docenti e studenti.
La vecchia maestra, che generalmente di Chiamava Maria Sandron, o il maestro, perché di maestri maschi ce n’erano parecchi, Attanasio Posalaquaglia incutevano davvero paura, e il timore degli alunni derivava non solo dal rigore delle punizioni – note disciplinari, bocciature o persino punizioni fisiche – ma anche dal prestigio sociale degli insegnanti, visti come figure indiscutibili di conoscenza e potere.
Oggi, il rapporto si è ribaltato e la povera Jasmin Pegoron o Kevin Lomonaco, freschi nomina in ruolo o, peggio, eterni precari, non hanno più il rispetto nemmeno del sorcio che inavvertitamente si trovasse a passare nel cortile del plesso scolastico.
Ma perché tutto ciò? Presto detto: il docente non è più visto come l’unico detentore del sapere, per altro acquisito in anni di studio, e viene dunque messo in discussione da un accesso all’ “informazione” senza precedenti, e troppo di frequente fuori controllo per quanto attiene al rigore e alla veridicità, dato dalla rete, che sempre più è vista come unica fonte.
Inoltre, il sistema scolastico si è poi orientato verso una maggiore “tutela” degli studenti, con normative che limitano l’autorità dei professori e danno più peso alle lamentele di genitori e alunni; dunque, il rischio di contestazioni, denunce o umiliazioni sui social ha reso molti insegnanti più timorosi nel loro ruolo, spingendoli a un atteggiamento più cauto e, talvolta, remissivo.
Il risultato è un’inversione dei ruoli: non più studenti che temono i professori, ma docenti che devono muoversi con prudenza nel loro stesso ambiente di lavoro.
Cercando di riportare il discorso alla leggerezza a noi abituale – anche se, purtroppo, le aggressioni non solo verbali ai professori da parte di alunni bulli spalleggiati da genitori ancor più smargiassi sono all’ordine del giorno – giova esaminare in chiave “ora e allora” una serie di situazioni che pongano il focus su come tutto è cambiato.
Partiamo dal compito in classe… pardon, la “verifica”.
Una volta: arrivava il giorno del compito e si sperava in un colpo di fortuna, magari copiando dal vicino con la tecnica dello “sguardo panoramico” o affidandosi a bigliettini scritti con caratteri microscopici.
L’insegnante, con l’occhio da falco, riusciva quasi sempre a beccare i furbetti e la punizione era epica: compito annullato, nota sul registro e figuraccia davanti a tutta la classe. Se fosse andato male, si sarebbe tornati a casa con la temuta frase: “Domani tua madre viene a parlare con la professoressa”.
Adesso invece l’alunno moderno ha tre piani di riserva: gruppi WhatsApp per scambiarsi le risposte in tempo reale, auricolari invisibili collegati a un amico stratega, e ovviamente l’intelligenza artificiale, capace di fornire risposte istantanee e ben argomentate.
Se viene beccato, non si scompone: fa ricorso, citando il regolamento scolastico e sostenendo che non era specificato il divieto di utilizzo dell’IA.
Alcuni genitori arrivano persino a protestare con la scuola: “Ma scusi, prof, se la tecnologia esiste, perché non usarla?”.
E riguardo al materiale scolastico?
In epoca non così remota bastava un astuccio essenziale con due penne, una matita rosicchiata e un righello usato più per colpire i compagni che per misurare e il diario era un capolavoro di arte contemporanea: pagine scarabocchiate, dediche d’amore segrete, frasi scritte con la Bic blu. Chi perdeva una penna, doveva affidarsi alla solidarietà dei compagni o a qualche scambio ingegnoso: “Ti do la mia merendina, mi presti la gomma?”.
Ora lo zaino – che pesa più di un blocco di marmo dei Lessini – sembra un negozio di elettronica: tablet di ultima generazione, power bank da 20.000 mAh per evitare tragedie, smartwatch per leggere le notifiche senza farsi scoprire.
Ah… il quaderno è un optional, usato più che altro come base d’appoggio per il telefono mentre si fa finta di prendere appunti. Quando la batteria si scarica, scatta il panico: “Prof, posso ricaricare? Senza telefono non posso studiare!”.
Grandi discrepanze pure per quanto attiene alla giustificazione.
Un tempo la scusa più gettonata era il classico “mal di pancia” e la firma dei genitori era spesso contraffatta con una perizia degna di un falsario professionista; se si fosse stato scoperti, si sarebbe ricorso a giustificazioni improbabili: “L’ho fatta firmare a papà, ma era di fretta e ha scritto male!”.
Se la scuola telefonava a casa, addio speranze: punizione garantita.
Da qualche anno “bruciare” è assai più complesso, perché giustificazione viaggia in digitale, scritta direttamente dal genitore sul registro elettronico, spesso accompagnata da emoticon per rendere tutto più leggero. “Mi scusi, prof, ma Marco aveva davvero mal di testa”, il tutto condito da faccina triste-comprensiva. E se il genitore si dimentica di inviarla, si cerca di hackerare il sistema o si accusa la connessione: “Prof, non funzionava il Wi-Fi, mica è colpa mia!”.
E la terribile interrogazione a sorpresa?
Anni fa era panico puro con tanto di sudori freddi e nausea istantanea.
L’alunno cercava di evitare lo sguardo dell’insegnante con tecniche da ninja, fingendo di scrivere cose a caso sul quaderno o nascondendosi dietro il compagno più alto.
Se veniva chiamato, l’unica speranza era improvvisare: “Prof, mi confondo tra Napoleone e Gilgamesh, ma posso spiegare la loro importanza storica in generale!”.
Oggidì la paura rimane, ma con un alleato in più: la tecnologia. In tre secondi si consulta Google sotto il banco, si utilizza un auricolare Bluetooth o si ricevono suggerimenti in diretta da un amico via chat. Se l’insegnante sospetta scatta la difesa: “Prof, mi sta mettendo ansia con questi metodi medievali, non possiamo fare interrogazioni a scelta?”.
Resta da dire del rapporto con gli insegnanti
Bei tempi quando l’insegnante era un’autorità indiscussa; se diceva qualcosa, non si discuteva, se avesse dato un brutto voto, i genitori avrebbero risposto “Peggio per te, studia di più!” a cui seguivano una punizione spesso anche sottoforma di punizioni tipo “non esci per tre mesi” Le note sul registro erano vere e proprie sentenze di condanna, seguite a casa da epiche scariche di calci nel sedere.
E adesso? Il docente deve stare attento a ogni parola per evitare denunce, mail chilometriche o discussioni su WhatsApp con genitori agguerriti. Se un alunno prende un brutto voto, la reazione dei genitori non è “Studia di più”, ma piuttosto: “Voglio vedere le prove della valutazione, mio figlio ha diritto a una revisione!”. Alcuni richiedono persino una riunione con il preside per contestare l’equità del giudizio e i più intemerati si rivolgono direttamente al TAR tramite l’avvocato di famiglia
In conclusione gli alunni cambiano – in peggio –, i metodi evolvono, ma la scuola rimane sempre il teatro di situazioni surreali. Alla fine, l’unica cosa che accomuna tutte le generazioni è la frase senza tempo: “Prof, ma perché proprio io?”.