26 Luglio 2024 - 9.52

La strada in salita di Kamala Harris

Umberto Baldo

Ieri pensando alle elezioni americane mi sono chiesto cosa debba essere considerato normale in una società.

Di primo acchito mi verrebbe da dire che la normalità è una condizione riconducibile alla consuetudine, a ciò che una società nel suo complesso, o nella sua stragrande maggioranza,  ritiene giusto. 

Purtroppo questo concetto viene spesso reinterpretato sulla base delle circostanze e di valori riconosciuti come tali dalla comunità di appartenenza. Quel che è normale per alcuni, non è detto lo sia per altri. 

Può accadere, anzi, che taluni ritengano “normali” alcune azioni riprovevoli, e che si alterino quando viene fatto notare loro come non vi sia alcuna traccia di normalità in quel che fanno. 

E così un mondo “normale”, il disastroso confronto televisivo fra Trump e Biden, con la dimostrazione plastica dell’inadeguatezza del Presidente in carica, avrebbe reso la sconfitta dei Democratici praticamente scontata, forse senza neanche aggiungere l’ulteriore effetto dirompente prodotto dal successivo attentato al leader repubblicano.  Trump di fatto non avrebbe avuto più neppure bisogno di fare ulteriore campagna elettorale. 

Ma in un mondo “normale” Trump non sarebbe nemmeno candidato, non lo sarebbe mai stato, e se anche lo fosse stato, a quest’ora probabilmente sarebbe già in galera da un pezzo.

C’è poco da discutere al riguardo: un candidato come Trump che ha tentato di corrompere il sistema democratico americano, che ha istigato il 6 gennaio 2021 l’assalto violento al Congresso durante un colpo di stato fallito, che è stato giudicato colpevole di 36 capi di imputazione, che è stato riconosciuto come stupratore da una corte, che ha subito due impeachment, che amoreggia con i dittatori e sembra essere  nelle tasche dei russi, in una democrazia semplicemente normale, di un mondo “normale”, non starebbe facendo campagna elettorale. 

Per dirla diversamente, se gli americani si rendessero conto del pericolo che corrono nel far tornare un golpista alla Casa Bianca non ci sarebbe partita, ma al momento questa consapevolezza non c’è: e nonostante l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, il paese è ancora diviso a metà, una metà delle quali considera Trump un candidato “normale”.

D’altronde lo scadimento in cui sta piombando la democrazia a stelle e strisce lo si percepisce da quando il Tycoon si è affacciato alla vita politica.

Guardate, io sono vissuto in piena guerra fredda, ho visto una marea di elezioni di tutti i tipi, con leader sanguigni che non risparmiavano nulla agli avversari; sì nulla, ma sempre rimanendo sul livello politico, e mai scadendo a quello dell’offesa personale e dello scherno. 

Sentire certi comizi di Trump, e soprattutto certi “fori onda”, mi porta sempre a chiedermi se quello del biondo Donald sia ancora il Partito Repubblicano di Abraham Lincoln, di Theodore Roosevelt, di Dwight Eisenhower, di Ronald Reagan.

Certo i tempi non sono più quelli, ma è bastata una settimana dopo essere sopravvissuto al tentato assassinio per sentire  Trump tornare alla sua vecchia retorica, con attacchi e insulti agli avversari; le eterne denunce delle elezioni rubate, l’allarme per un’invasione di migranti tutti in fuga da prigioni e manicomi, e le lodi ai leader autoritari. 

Il Trump dell’incoronazione alla convention di Milwaukee, del ragionare meno aggressivo e dagli appelli all’unità, è stato  subito dimenticato!

Tornando alla “normalità”, vi sembra normale che un Candidato Presidente Usa lodiXi Jinpingcome “un uomo brillante che controlla 1,4 miliardi di persone con un pugno di ferro” e che fa apparire al suo confronto persone come Joe Biden dei “lattanti”?

Vi sembra normale che con una guerra di aggressione in atto ad uno Stato sovrano accomuni a Xi anche Vladimir Putin, definiti come persone “intelligenti, dure” che “amano i loro Paesi e vogliono il bene del loro Paese, qualsiasi sia la loro ideologia”.

Nel mondo in cui viviamo, che ripeto non è sicuramente un mondo “normale”, il gran casino aperto dal tardivo ritiro  di Joe Biden in favore di Kamala Harris, con tutti i relativi retropensieri e retroscena, con tutta quella selva di complicazioni pratiche, legali, politiche e sentimentali di cui verosimilmente non smetteremo di occuparci fino a novembre, rappresenta esattamente ciò di cui i Democratici avevano bisogno: la nuova grande storia che occupa la scena e fa sembrare già vecchio di secoli lo stesso attentato alla vita diTrump.

Immagino ve ne siate accorti che dello sparo e dell’orecchio ferito del Tycoon non parla più nessuno!   

Perché la domanda per tutti è diventata questa: nell’epoca della post verità e della fake news riuscirà Kamala Harris a controbattere alla narrazione stereotipata della donna nera e radicale che Trump vuole appiccicarle addosso?
Pensate, definire “radicale “una che è stata Procuratore Distrettuale dello Stato della California!

E non caso la Harris ha utilizzato la carta della “Cop”, della poliziotta contro il criminale Trump, quando al primo intervento pubblico dopo la rinuncia di Biden ha detto: «Sono stata Procuratore Distrettuale, ho frequentato i tribunali e mi sono occupata di criminali di vario genere: predatori che hanno abusato di donne; truffatori che hanno derubato i consumatori; imbroglioni che hanno infranto le regole a proprio vantaggio. Quindi  credetemi quando vi dico che conosco i tipi alla Donald Trump”.

Guardatevi dalle facili illusioni, sempre che non siate trumpiani.

Presentarsi con una candidata considerata debole negli Stati della cosiddetta cintura della ruggine (quelli del libro di Vance “Elegia Americana”), che saranno decisivi nell’elezione del successore di Biden, resta comunque un rischio altissimo. 
Ma sicuramente qualche carta da giocarsi Kamala ce l’ha. 

In primis il tema della senilità potrebbe essere rigirato adesso contro lo stesso Trump, uomo anziano (78 anni), a sua volta non sempre lucido e coerente.

Il secondo: l’entusiasmo che ha riattivato in un Partito Democratico uscito lacerato da divisioni e scontri, come evidenziato dal boom di donazioni alla campagna elettorale dopo l’annuncio della sua candidatura. Un entusiasmo che forse aiuterà a galvanizzare segmenti cruciali del voto democratico, in particolare giovani e minoranze, delusi da Biden (fra l’altro elettori che sicuramente non avrebbero votato Trump, ma quasi certamente non avrebbero proprio votato).

Terzo elemento di forza: la capacità di sfruttare meglio temi – aborto su tutti – elettoralmente vincenti e mobilitanti per l’elettorato femminile, democratico e non solo: un voto femminile che è maggioritario nel Paese.

Quarto aspetto, una figura come Harris risulta pericolosa rispetto all’incapacità “naturale” di Trump a contenere le sue intemperanze e non risultare politicamente scorretto (sembra che dai deputati e senatori repubblicani sia già arrivato un invito a limitare offese personali e accuse razziste alla Harris, per paura che, trattandosi di una donna, siano contro producenti sull’elettorato). 

Non va poi dimenticato che Trump non gode sull’intero elettorato di tutta quella popolarità che gli si accredita; la convention repubblicana di Milwaukee, e il suo sconclusionato discorso di chiusura, ne hanno esposto una volta ancora radicalismo ed inadeguatezza.

Ecco perché, pur suggerendo la ragione che 100 giorni sono pochi per fare di Kamala Harris un Presidente, in questo mondo poco “normale” chissà che magari non sia possibile.

Umberto Baldo 

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