25 Aprile 2025 - 14.05

Lasciamo che oggi, 25 aprile “il vento soffi” anche sul Dnepr. Il 25 aprile e la bandiera ucraina: il coraggio della coerenza

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di Umberto Baldo

Oggi, nelle piazze italiane, si celebrerà ancora una volta il 25 aprile. Ci saranno bandiere, canti, discorsi. Ci sarà chi ricorderà la lotta dei partigiani, la fine della dittatura fascista, la liberazione dall’occupazione nazista. Tutto giusto, tutto doveroso. Ma mi chiedo: che senso ha oggi celebrare la Resistenza se non siamo più capaci di riconoscere, sostenere ed onorare le “Resistenze” di oggi?
Perché non riusciamo a capire che nel cuore dell’Europa, a pochi chilometri dai confini dell’Unione, da più di due anni, un popolo sta combattendo, armi in mano, per la sua libertà, la sua indipendenza, la sua dignità? Un popolo invaso da una potenza imperialista e autoritaria, che nega il diritto all’esistenza della nazione ucraina, bombarda città, deporta bambini, distrugge infrastrutture civili.
Una guerra che non è soltanto tra eserciti, ma tra due idee di mondo.
Da una parte c’è un popolo libero che difende la propria sovranità, la propria identità e il proprio futuro. Dall’altra, un regime autoritario che mira a ricostruire sfere di influenza con i mezzi dell’occupazione militare, della violenza e della paura.
Sì, per me gli ucraini di oggi, soldati regolari, civili arruolati, donne che preparano pasti e curano i feriti, giovani che coordinano la logistica nei sotterranei di Kiev, sono i partigiani del nostro tempo.
Resistono, come fecero i nostri padri e i nostri nonni, contro un’invasione.
Come allora non combattono per conquista, ma per la libertà.
Come allora, la loro non è una guerra di espansione, ma di autodifesa.
Come allora, la loro bandiera è anche la nostra, se abbiamo ancora il coraggio di riconoscerla: è la bandiera della democrazia, del diritto internazionale, ma per la libertà.
Ci sono differenze, certo. L’Ucraina è uno Stato, ha un esercito, un governo legittimo, ed è riconosciuta dalla comunità internazionale. Ma nella sostanza, la lotta delle donne e deli uomini ucraini è simile a quella che si combatté sulle montagne delle Langhe, dell’Appennino, nelle città del Nord Italia sotto l’occupazione nazista e fascista.
La posta in gioco è la stessa: la libertà di un popolo.
Ma allora mi chiedo: perché oggi tutti coloro che scelgono di partecipare ai cortei per il 25 aprile non sventolano una bandiera ucraina?
Perché non abbiamo il coraggio di dire che chi combatte contro Putin oggi sta dalla stessa parte di chi, 80 anni fa, combatteva Mussolini e Hitler?
Il problema è che in Italia troppi hanno ancora paura di essere chiari. Si rifugiano nei distinguo, nei “né con Putin né con Zelensky”, si nascondono in un pacifismo peloso che suona come indifferenza, se non come filo-putinismo, non si pronunciano per piccoli e miserabili calcoli politici.
E come allora, ci sono voci in Europa che osservano con cinismo, che parlano di trattative “realistiche”, di resa “onorevole”, di concessioni “inevitabili”. Le stesse voci che nel ’43 avrebbero detto “non si può fermare la Wehrmacht o le SS”, quindi meglio “arrendersi”, meglio chinare il capo di fronte a brutalità e sopraffazione.
Ma la Resistenza non fu neutralità. Fu una scelta di campo. Fu coraggio. Fu anche, diciamolo, violenza necessaria per riconquistare la libertà.
Perché, ricordatelo sempre, la storia la scrivono quelli che resistono, non quelli che si arrendono.
Gli ucraini oggi stanno pagando con la vita il prezzo della nostra sicurezza. Difendono un confine che non è solo il loro: è anche quello tra civiltà e barbarie, tra diritto e prepotenza, tra libertà e dominio.
Onorarli oggi, come i partigiani italiani del 1945, non è quindi solo un esercizio retorico.
E’ un dovere morale.
Perché se la Resistenza è davvero parte della nostra identità europea, allora non possiamo voltare le spalle a chi ne incarna i valori più autentici.
C’è un filo che unisce le valli del Piemonte ai campi devastati del Donbass, i monti dell’Appennino alle città ucraine ridotte in macerie. È il filo della Resistenza. Non quella celebrativa, rituale, scolpita nei monumenti. Ma quella viva, drammatica, fatta di paura e coraggio, di rabbia e dignità.
Di conseguenza se oggi sentiremo cantare Bella Ciao, non dimentichiamoci che a migliaia di chilometri da qui uomini e donne combattono davvero per la propria libertà.
Non è retorica. E’ realtà. E’ guerra. E la storia si scrive nel sangue e nel fango.
Ecco perché pensare all’Ucraina, oggi, attraverso le note dei canti partigiani italiani, non è un azzardo, ma un atto di coscienza.
Perché “una mattina mi son alzato, e ho trovato l’invasor” non è solo un verso del passato: è la cronaca quotidiana di un popolo che resiste all’aggressione militare russa con una forza che ricorda quella dei nostri partigiani. E non solo per la sproporzione dei mezzi e la crudeltà dell’aggressore, ma per la consapevolezza di essere dalla parte giusta della storia.
I giovani ucraini che si arruolano, le madri che proteggono i figli, i volontari che portano cibo e medicine nelle città assediate: questi sono i “ribelli della montagna” del XXI secolo. E intonare per loro Fischia il vento o Bella ciao non è anacronistico; è un atto di solidarietà morale, civile, storica.
Noi italiani abbiamo conosciuto il prezzo della libertà. Lo abbiamo pagato con vite, tradimenti, deportazioni. Ma anche con il coraggio di chi non ha chinato la testa. È tempo di ricordarlo non solo per celebrare, ma per comprendere. Perché la libertà è una conquista fragile, e chi la difende oggi, ovunque nel mondo, merita il nostro rispetto.
E allora sì: lasciamo che il vento fischi, oggi, anche sul Dnepr.
Perché la Resistenza, quando è vera, non ha confini; e nemmeno scadenza.

VIACQUA

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