22 Ottobre 2024 - 9.40

Le alluvioni hanno una causa precisa; la nostra insaziabile fame di suolo

Umberto Baldo

“Là dove c’era l’erba ora c’è una città, e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà?…”

Questo verso della canzone “Il ragazzo della via Gluck” dell’immenso Adriano Celentano mi è tornata alla mente, chissà per quale associazione di idee, guardando le terribili immagini dell’ennesima alluvione in Emilia Romagna, che ha portato la devastazione persino nella città di Bologna.

Non ho alcuna intenzione di riprendere le solite filippiche contro le emissioni di Co2 e gas serra, ed il conseguente cambiamento climatico, ma indubbiamente piove, forse non di più delle medie storiche, ma con una frequenza, una violenza ed un’intensità anomale, che ricordano le scene di certi film ambientati nei tropici, con quei diluvi tipici del clima monsonico.

Auto flagellarsi ogni volta di fronte a queste alluvioni serve a poco; perché cinicamente bisogna rendersi conto che per certi versi quel che è fatto è fatto, e purtroppo lo sviluppo urbano ed economico ha avuto come corollario un clima sempre più impazzito.

Ma questo non ci assolve, perché almeno nella valle del Po le nostre colpe ci sono tutte, in quanto sembra quasi che abbiamo fatto l’impossibile per rendere il nostro habitat sempre più fragile.

Mi spiego meglio.

Ricordate quando alle elementari la maestra ci parlava della Pianura Padana?

Immagino di sì, e ricorderete anche che ci veniva spiegato che si tratta di una “pianura alluvionale”.

Con il termine alluvionale ci si riferisce ad una caratteristica di questo tipo di pianura, quella di essere una zona più bassa e pressoché pianeggiante in mezzo a delle alture, ricoperta e riempita dai sedimenti trascinati e depositati dai fiumi nel corso dei millenni. 

In altre parole: quando camminiamo in una pianura alluvionale, siamo in una zona nella quale una volta c’era un alveo fluviale con uno o più corsi d’acqua che, esondando dal loro letto, hanno appunto depositato i sedimenti che trasportavano.

Dopo secoli di bonifiche ed interventi sugli alvei fluviali, noi siamo ora abituati a vedere i fiumi nascere, ricevere gli affluenti, e sboccare in mare. 

Ma questa configurazione è quasi totalmente artificiale.

In un territorio naturale un fiume, dopo una ripida discesa dal monte, arrivando nella pianura si impaluderebbe, si dividerebbe in più rami, e sarebbe libero di divagare pigramente, cambiando il proprio corso in lungo ed in largo per tutta la valle.  

Ne consegue che prima degli interventi antropici le pianure italiane fossero un insieme di paludi e isolotti, dove zone asciutte si alternavano ad acquitrini e laghi.

Vi siete mai chiesti: a cosa servono le golene, quelle parti di un fiume che si trovano fra il letto e gli argini, in cui sarebbe vietato costruire alcunché?  Semplice, a contenere le piene, perché è noto che un corso d’acqua prima o poi ad un certo momento, in certe condizioni, si riprende tutto il proprio letto originario. 

Noi nel corso del tempo non solo abbiamo costruito sulle aree golenali, non solo abbiamo edificato i condomini persino negli alvei dei torrenti, come in Liguria, ma i corsi d’acqua li abbiamo addirittura tombinati.

Come accennato, il problema tecnico di base è che i fiumi hanno bisogno dei propri spazi, perché in ogni caso prima o poi se li riprendono. 

Sono secoli che costruiamo, e poi innalziamo, argini a difesa degli spazi che abbiamo sottratto ad essi. Ogni intervento effettuato su un corso d’acqua ha delle ripercussioni; addirittura occorrerebbe considerare il territorio dal quale arrivano le acque.

Un fiume tombato o tombinato è una delle principali cause delle alluvioni che colpiscono il territorio italiano, perché incanalare e intubare un corso d’acqua, o coprirlo con un solaio di cemento per costruirci sopra una strada, una piazza o una casa, sono atti davvero irresponsabili. 

Quando arriva, l’acqua abbondante non vuole trovare limiti e ostacoli lungo il  percorso; e se li trova sono disastri per le aree che attraversa.

Questo è successo nei giorni scorsi a Bologna, dove una ingente massa d’acqua non ha trovato sfogo nel sottosuolo, ed è emersa con la violenza che abbiamo visto, distruggendo tutto quello che trovava sul proprio cammino.

Purtroppo in Italia sono centinaia e centinaia i fiumi tombati (Mario Tozzi arriva a contarne circa 12mila), e nessuna zona o città è del tutto immune, perché la fame di terreni edificabili è stata ovunque inarrestabile (un esempio sono il Seveso ed il Lambro a Milano, a rischio esondazione ad ogni pioggia intensa). 

Come dicevo, piangersi addosso, maledicendo Giove Pluvio, serve a poco.

E siccome sperare che il clima ritorni a breve quello di un tempo è pura utopia, almeno ci si dia da fare per costruire quelle opere che sono in grado, se non di annullare, almeno di mitigare di molto le alluvioni; in primis le vasche di espansione (o laminazione) a monte delle città, ma anche dighe o canali scolmatori.

Il punto è che questi interventi, al momento gli unici possibili, non vengono fatti non tanto e non solo per mancanza di soldi o per inettitudine di chi vi sarebbe preposto, ma anche per sudditanza verso l’ideologia falsamente ecologista di chi si oppone alla pulizia degli alvei dalla vegetazione che li invade nel corso dei lunghi periodi secchi, alla costruzione di dighe e di invasi, e persino alla manutenzione degli argini per non turbare nutrie e gamberi che li distruggono.

Andrebbe poi ripristinata la pulizia delle sponde dei corsi d’acqua;  se sono piene di detriti, rifiuti ed altro, appena si alza il livello tutto questo viene portato via dalla corrente, e poi basta un ponte perché si formi una diga di materiali, con grande pericolo sia immediatamente a monte che a valle di essa.

Io credo però che l’Emilia-Romagna, come la Lombardia, la Liguria ed anche il Veneto, (ma in realtà nessuna parte del territorio italiano ne è immune)  ci stanno indicando che abbiamo raggiunto uno dei limiti più insormontabili dello sviluppo economico, quello del suolo, un limite che non può essere in alcun modo scavalcato. 

Semplicemente non possiamo pensare di moltiplicare all’infinito gli insediamenti residenziali e produttivi senza pagare un prezzo via via sempre più pesante.

Dove oggi i fiumi esondano, in passato c’erano paludi e acquitrini, cioè i territori dell’acqua, che quando piove intensamente ritornano temporaneamente alla loro antica vocazione. 

Solo che in mezzo adesso ci sono le nostre vite ed i nostri beni.

E come in ogni cosa c’è alla fine il problema politico: le soluzioni sono costose (anche se meno della riparazione dei danni), spesso impopolari (abbattimento di edifici abusivi, e adesso forse anche abbandono di nuclei abitati),  richiedono tempi lunghi, e sono poco appariscenti.

Il problema, come dico spesso,  è che per affrontare problemi “epocali”, ci vorrebbero “statisti”, cioè politici che lavorano responsabilmente per il futuro venturo, non politicanti con orizzonte le prossime elezioni, e quindi in vena di favori elettorali. 

Il problema è tutto qua: se concedi un condono per sanare abusi edilizi (e Dio sa quante abitazioni sono state così regolarizzate in luoghi vietati e pericolosi)  il beneficiario ti sarà grato e ti voterà; chi invece si ricorderà che quel tal giorno non c’è stata una alluvione che gli ha distrutto casa perché 20 anni prima qualcuno aveva deciso di spendere soldi per fare una cassa di espansione? 

Umberto Baldo

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