L’inarrestabile assalto degli oriundi al passaporto italiano

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Umberto Baldo
Oggi ritorno su un tema su cui vi ho già intrattenuto (https://www.tviweb.it/dal-brasile-la-carica-di-300mila-nuovi-veneti-quasi-trentamila-domande-ognuna-con-10-richiedenti/), perché a mio avviso non viene preso nella dovuta considerazione dai nostri politici.
Il mio rinnovato interesse nasce dal recente intervento del Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte Raffale Prosperi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, durante il quale ha riferito dell’iter processuale intrapreso da un cittadino brasiliano, volto ad ottenere la cittadinanza italiana in virtù di un trisavolo emigrato in Brasile nel 1830.
Il Magistrato, precisando che il Tribunale si è trovato a dover ordinare a un piccolo Comune alpino del Torinese di provvedere, oltre a non nascondere le proprie perplessità, oltre a definirlo “strano”, ne ha parlato come una “spada di Damocle” che potrebbe pendere sulla giustizia: “Si sente dire – ha spiegato -di un assedio alle nostre rappresentanze diplomatiche e consolari per richieste analoghe da parte di discendenti di immigrati italiani soprattutto in Sudamerica. Addirittura migliaia di casi. Sento il dovere di segnalare perché, al di là di quanto avvenuto qui da noi, la situazione, oltre ad intasare i tribunali civili, potrebbe nascondere illeciti penali”.
Per la cronaca, l’aspirante cittadino italiano aveva vinto la causa, ma il Comune interessato, quello di Roure, secondo Prosperi aveva opposto delle “difficoltà”.
“Noi – ha detto il Presidente del Tar – non abbiamo potuto fare altro che procedere con un giudizio di ottemperanza senza entrare nel merito.
Vi starete chiedendo. Cosa c’è di nuovo rispetto a quello che ci avevi raccontato qualche mese fa, relativamente al vero e proprio assalto ai nostri piccoli Comuni (del bellunese in particolare) da parte di migliaia di cittadini brasiliani o argentini per ottenere il passaporto italiano?
Nulla di veramente nuovo, se non che il fenomeno continua, con tonnellate di plichi che arrivano dal Sudamerica ai Comuni, perché l’avo consente ai discendenti di chiedere la cittadinanza al municipio d’origine (basti dire che Val di Zoldo, comune bellunese di 2.778 anime, conta ben 1.770 iscritti all’Aire), e che l’unico provvedimento del Governo è stato quello di permettere ai Comuni di tentare di frenare la marea di richieste imponendo un contributo di 600 euro (chiaramente un pannicello caldo che non serve a nulla).
Guardate, io lo so bene che è tutto legittimo; che alla base del fenomeno c’è il principio dello ius sanguinis, regolato dalla legge n. 91 del 5 febbraio 1992, che prevede che possano acquisire la cittadinanza (anche se sono nati all’estero) figli, nipoti e pronipoti di cittadini italiani. E che andando alla radice del problema, si scopre che per diventare italiano basta che un proprio antenato, quindi anche uno dei 16 trisavoli o dei 32 “quadrisavoli”, sia stato almeno cittadino del Regno d’Italia.
Capisco che i “patrioti” che ci governano forse sono convinti che “aaa Nazzzziiiioooone” debba “abbracciare” anche tutti coloro che vantano origini italiche, ma logica vorrebbe che se una legge porta a risultati abnormi, non si vede perché non si possa modificarla.
E come succede spesso in questo Paese, in cui la politica vive in un mondo “staccato” dalla gente comune, è la Magistratura, costretta invece a confrontarsi con i problemi reali, ad evidenziare carenze ed illogicità di certe norme.
Non ho una soluzione in tasca, se non la speranza che prima o poi Lor Signori dovranno decidersi ad arginare “l’assalto al passaporto italico”; quindi mi limito ad alcune riflessioni.
Partendo dal caso concreto sollevato dal Presidente del Tar del Piemonte.
Non so se ci avete fatto caso, ma si tratta di un discendente di un italiano emigrato in Brasile nel 1830.
La prima cosa che viene in mente è che nel 1830 l’Italia era ancora “un’espressione geografica”.
Solo per ricordare, in quel periodo la nostra penisola era divisa fra: Regno di Sardegna, Regno Lombardo Veneto, Ducato di Parma Piacenza e Guastalla, Ducato di Modena e Reggio, Granducato di Toscana, Stato della Chiesa, Regno delle Due Sicilie.
È davvero corretto definire quel trisavolo emigrato un “italiano”?
Stiamo parlando di quasi 200 anni fa!
Capisco la logica del diritto, che però non deve a mio avviso cozzare contro la “logica” con la “elle” maiuscola.
Sempre per ragionare, è vero che ci sono altri Stati (pochi in verità) che prevedono normative analoghe a quella italiana, ma in generale sono limitate a casi di discendenti di esiliati a causa di persecuzioni o guerre civili.
Per assurdo, se questa fosse una norma generalizzata, buona parte dei cittadini degli Stati Uniti potrebbero richiedere la cittadinanza ed il passaporto di un Paese Europeo, visto che notoriamente gli americani sono un popolo di immigrati provenienti dal Vecchio Continente.
Sempre il Presidente Prosperi, nella sua relazione, si è posto la domanda di quali potrebbero essere gli effetti sul nostro stesso sistema democratico, dato che questi nuovi cittadini vengono iscritti alle liste elettorali come “residenti all’estero”, e hanno il diritto di votare sulla base della legge Tremaglia (https://www.tviweb.it/elezione-diretta-del-premier-e-voto-degli-italiani-allestero/).
Ha ragione da vendere il Magistrato circa i possibili rischi per la democrazia, perché con questa legge permettiamo di votare a gente che non solo non ha mai abitato in Italia, ma non ha neanche alcuna voglia di venirci ad abitare, perché interessati solo al passaporto tricolore.
Per non dire che attribuiamo il potere di influire con il voto sulle nostre vite a gente che non ha mai pagato una lira di tasse in Italia.
Io credo, come sopra accennato, che a questo punto debbano subentrare la logica ed il raziocinio.
Poiché nel XIX secolo e nel XX quasi 30 milioni di italiani hanno lasciato l’Italia con destinazioni principali le Americhe e l’Australia, si stima che il numero dei loro discendenti, che sono chiamati “oriundi italiani”, sia compreso tra i 60 e gli 80 milioni.
Sono diffusi in differenti nazioni del mondo: le comunità più numerose sono in Brasile, Argentina, Venezuela e Stati Uniti.
Va poi considerato che un oriundo può avere anche solo un lontano antenato nato in Italia, che la maggioranza di costoro ha solo il cognome italiano (e spesso neanche quello), e che in molti Paesi, specialmente del Sud America, le stime sono molto approssimative poiché non esiste alcun tipo di censimento sulle proprie origini.
Non si può poi nascondere una grande verità: quella che non c’è nessuna riscoperta delle origini, in quanto alla base di questo fenomeno c’è esclusivamente l’interesse per la possibilità di ottenere il passaporto italiano, che è tra i più ambiti al mondo perché permette l’ingresso senza visto o con visto all’arrivo in oltre 190 Paesi, inclusi Stati Uniti, Canada, Giappone.
Per di più con il passaporto italiano non solo è possibile per brasiliani o argentini raggiungere mete ambite come il ricco nord Europa, ma riescono più agevolmente ad entrare anche negli Stati Uniti per ottenere un permesso di lavoro del tipo E2: ossia un visto per chi vuole intraprendere un’impresa.
Oltre ai rischi per la democrazia, visto che sono piuttosto noti e documentati i brogli nelle elezioni all’estero, questo “desiderio di italianità” (sic!) è tale per cui sono nate, e sono anche state scoperte, organizzazioni criminali dedite a favorire l’individuazione truffaldina di antenati, addirittura cercandoli nei cimiteri.
Concludendo, una classe politica degna di questo nome, di fronte ad un problema come questo non può, come spesso è abituata a fare, girare la testa dall’altra parte.
Certo non immagino blocchi improvvisi, ma mi chiedo perché, prima di concedere la cittadinanza e rilasciare un passaporto a questi “nuovi italiani”, non possa essere chiesta loro la conoscenza della nostra lingua, e magari anche la residenza in Italia per un certo periodo di tempo.
Non mi sembrano condizioni capestro; ma solo un po’ di buon senso!
Umberto Baldo