Lo scacchiere Oceania: vecchi equilibri e nuovi scenari
Per la mia generazione il Pacifico viene associato inevitabilmente alla guerra, che i giornalini di allora, in primis Collana Eroica, ci raccontavano con dovizia di particolari.
E queste storie avevano di fatto per protagonisti solo gli uomini della Us Navy, gli aerei dell’Us Air Force, ed i Marines impegnati a combattere i cattivi, vale a dire i giapponesi.
Ne consegue che nomi come Pearl Harbor, Mar dei Coralli, Midway, Guadalcanal, Filippine, Iwo Jima, Okinawa divennero per noi familiari, anche se tutte le battaglie del Pacifico furono conseguenza di una guerra brutale e logorante, alla fine della quale gli Stati Uniti emersero come la principale potenza del Pacifico.
E credo che da qui si debba partire.
Pensate al mondo uscito dalla seconda guerra mondiale.
L’Inghilterra vince la guerra ma non ha più risorse da impegnare in altri Continenti, il Giappone e la Germania sono usciti distrutti, la Francia è riuscita a rimanere nel bouquet dei vincitori (ed infatti mantiene i suoi territori nel Pacifico), l’impero della Spagna è ormai roba da libri di storia, la Cina è ancora alle prese con la rivoluzione maoista, ma soprattutto è ancora un paese povero e sottosviluppato.
Date queste condizioni chi poteva dettare legge in Oceania?
Chi aveva navi, portaerei, basi militari, risorse finanziarie?
E chi soprattutto aveva vinto la guerra del Pacifico, sia pure con il sacrificio di migliaia di ragazzi in armi?
In una parola gli Stati Uniti d’America, che in parte esercitavano la loro indiscussa egemonia per il tramite dell’Australia, fedele alleato.
E si è trattato di un predominio a suo modo “pacifico”, tanto che ancora alla fine del 2012, durante il Pacific Islands Forum, Hillary Clinton, allora Segretario di Stato, affermò che gli Stati Uniti fossero un “Paese del Pacifico” e che, pertanto, vi fosse un legame indissolubile con l’Oceania: un messaggio a questo punto già diretto alla Cina.
Ricapitolando, per un lungo periodo, il Pacifico meridionale è stato ritenuto un’area di importanza minorenello scacchiere globale.
L’opinione pubblica internazionale, in parte giustamente, non riteneva strategicamente rilevanti i piccoli Stati insulari dell’area, accettando implicitamente che tenere l’ordine nella zona competesse all’Australia, la quale agiva, come accennato, per procura degli Stati Uniti.
In estrema sintesi, per tutta la seconda metà del Novecento il quadrante è stato tralasciato dagli analisti di gran parte del mondo.
Tutto questo fino a che la Cina non è cresciuta, diventando una grande potenza economica e militare, quindi interessata a far sentire la propria voce anche nel Pacifico, su cui fra l’altro affacciano le proprie coste.
Non stupisce quindi che da parecchi anni il Pacifico meridionale stia vivendo nuove dinamiche, divenendo di fatto il principale campo di confronto tra Cina e Stati Uniti.
Le motivazioni sono intuitive, perché in ballo ci sono il controllo delle rotte che uniscono l’Asia al Sudamerica, nonché l’accesso ad ingenti risorse minerarie
Il tutto senza contare che gli Stati insulari dell’area, che si sono costituiti dopo la decolonizzazione, per quanto piccoli, hanno pur sempre diritto di voto nelle Organizzazioni Internazionali, e averli dalla propria parte è sicuramente meglio che averli contro.
Volete un esempio?
Quando il 10 maggio 2024 l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato una risoluzione per sostenere la richiesta della Palestina di diventare membro a pieno titolo dell’Onu, gli Stati Federati della Micronesia, Nauru, Palau e la Papa Nuova Guinea hanno votato contro, così come gli Stati Uniti e Israele. Tra i 25 Paesi astenuti, oltre all’Italia, ci sono state le Fiji, le Isole Marshall e Vanuatu.
Senza poi trascurare le ZEE (Zona esclusiva economica), che sono aree marine, adiacenti alle acque territoriali, in cui uno Stato costiero ha diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali, giurisdizione in materia di installazione e uso di strutture artificiali o fisse, ricerca scientifica, protezione e conservazione.
La progressiva penetrazione cinese sta avvenendo utilizzando le consuete tecniche di soft power.
Tanto per far un solo esempio, nelle Vanuatu, Pechino si è garantita il disconoscimento di Taiwane l’uso dell’approdo di Port Vila, in cambio della costruzione di alcune infrastrutture.
Lo scopo di Pechino è chiarissimo: garantire la sicurezza dei propri trasporti, ampliare l’accesso al Pacifico, necessità di evitare i choke point (colli di bottiglia)naturali.
Dal punto di vista diplomatico, la Cina mantiene rapporti con tutti i Paesi del Pacifico che abbiano accettato di sostenerla nella disputa con Taiwan, pur non avendo al momento alcun interesse a espandere il proprio controllo militare sugli Stati insulari; nonostante, soprattutto con Fiji, Papua Nuova Guinea e Tonga, via sia una stretta collaborazione.
Ovviamente gli USA non gradiscono la presenza cinese in quest’area che, secondo la visione statunitense, deve concretizzarsi in un Oceano Indo-Pacifico “libero e aperto” solo agli interessi strategici, economici e militari di Washington.
Avrete già percepito che mentre i cinesi sono al momento interessati principalmente ai commerci, ed alle materie prime dell’Oceania, i rapporti commerciali ed economici degli Usa con i Paesi dell’area sono insignificanti; e pertanto per loro la regione riveste una mera importanza strategica, poiché ospita importanti installazioni militari come basi radar, sistemi di difesa missilistica, e poligoni missilistici di prova.
La crescente rilevanza di Pechino nel Pacifico, e il continuo aumento delle spese militari della Cina, hanno portato come conseguenza un generalerafforzamento delle alleanzetra gli Stati che hanno interesse nella regione. Negli ultimi anni, ad esempio, l’India, gli Usa, l’Australia e il Giappone hanno rilanciato le attività del Quad (Dialogo quadrilaterale di sicurezza), un’alleanza informale di cooperazione nata nel 2007 per contenere l’espansionismo cinese nel Pacifico.
Nel 2021 l’Australia, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno firmato un accordo militare, chiamato Aukus dall’acronimo di Australia, United Kingdom e United States, con lo scopo di condividere tecnologie per la difesa navale e, implicitamente, contrastare la Cina.
Il piano prevede, tra le altre misure, di dotare l’Australia di sottomarini a propulsione nucleare, più veloci e strategici di quelli tradizionali, a partire dalla fine di questo decennio.
Come ulteriore elemento di riflessione non va trascurato che gli Stati insulari dell’Oceania stanno acquisendo un ruolo sempre più importante anche nelle politiche climatiche, a causa della loro vulnerabilità alle conseguenze dei cambiamenti in atto. Non è un mistero infatti che buona parte delle isole sparirebbero sotto le onde in caso di aumento del livello dei mari (e non credo di sbagliare nell’ affermare che l’uscita degli Usa dell’Accordo sul clima, imposta in questi giorni da Trump, raffredderà i rapporti di questi governi con gli americani).
La crisi climatica è considerata talmente seria che, mossi da uno spirito di collaborazione, gli Stati insulari hanno recentemente concluso tra loro accordi di mutuo supporto, così da assicurare la disponibilità ad ospitare un certo numero di profughi, in caso di evacuazione forzata delle zone più a rischio.
Concludendo, senza dubbio il Pacifico meridionale è ancora una regione a netto predominio statunitense e australiano
Ma il cambiamento delle dinamiche politico-militari in quest’area è inarrestabile: e data la particolarità del Continente, forse l’unica soluzione sarebbe quella di una intelligente collaborazione fra tutti gli attori in campo.
Purtroppo, la Cina è assai riluttante a collaborare a meccanismi condivisi di sostegno allo sviluppo dell’Oceania, soprattutto perché da sempre poco propensa a sottostare ai controlli delle Organizzazioni internazionali, già presenti nell’area.
Il Pacifico meridionale diventerà così sempre più strategico per alcune fra le maggiori potenze del mondo, ma senza una “camera di compensazione” che regoli le ingerenze e gli interventi, armonizzandoli per il benessere dei popoli dell’intera area, l’attrito, per non dire scontro, potrebbe diventare permanente, e rischioso.