Matteo Salvini e la causa persa dell’immigrazione
Umberto Baldo
Non so se sia una mia impressione, ma da qualche tempo mi sono fatto l’idea che Matteo Salvini sembra avere una netta propensione a sostenere le “cause perse”, e nella specie mi riferisco al fenomeno migratorio, ed allo “jus scholae” che in questi giorni sta sollevando un polverone all’interno dello stesso Governo.
Il Capitano probabilmente non ha capito che l’immigrazione non è più fra i temi in cima alle preoccupazioni degli italiani, e che quel ceto produttivo del Nord a cui un tempo parlava la Lega oggi chiede alla classe politica italiana non solo di non sbarrare la strada ai migranti, ma anzi di averne sempre di più, di più, per colmare i buchi che l’inverno demografico sta creando nel nostro sistema economico (al Sud il numero dei pensionati già supera quello dei lavoratori attivi, al Nord è solo questione di qualche anno).
Salvini sembra non comprendere che agitare i migranti come il “babau” non paga più nemmeno elettoralmente (e le recenti elezioni al Nord lo confermano); sembra non capire che i paradigmi cambiano, che le tendenze mutano, che i trend si invertono.
Io cerco sempre di praticare per quanto mi è possibile l’onestà intellettuale.
E non ho quindi paura ad affermare che a suo tempo non avevo visto male la Bossi-Fini, perché ero convinto che un’immigrazione incontrollata, che in certi momenti assomigliava nei numeri ad un’invasione, avrebbe potuto creare gravi problemi all’assetto della nostra società, con il rischio di trovarci nelle nostre città le banlieue francesi, covi di islamismo terrorista potenzialmente incontrollabile.
Io credo che noi, e non parlo della sola l’Italia ma dell’intera Europa, abbiamo fallito nel momento in cui non siamo riusciti (e francamente, fra gauche e anime belle, non so se ci abbiamo anche solo provato) a rimpatriare con le buone o con le cattive i migranti che mostravano una chiara volontà di non integrarsi, accompagnata da nette tendenze a delinquere.
Lo so bene che i Paesi di partenza non ne volevano più sapere di averle indietro quelle “risorse” (almeno così le dipingeva certa nostra sinistra), ma forse un’azione comune e concertata di tutta l’Unione Europea, supportata dalle giuste pressioni diplomatiche (chiaro eufemismo) avrebbe potuto ottenere risultati migliori.
Ma come si dice, è inutile piangere sul latte versato; è andata come è andata, e cioè che buona parte dei nuovi arrivati con il tempo in qualche modo si è integrata (non senza difficoltà ovviamente), mentre coloro che erano venuti con poca voglia di lavorare o per fare i delinquenti, hanno trovato spazio fra le fila della nostra malavita, o si sono “messi in proprio”.
Confesso che se c’è una cosa che continua a darmi fastidio è non tanto la predicazione della Chiesa (forse sarebbe meglio dire delle Chiese visto l’impegno dei Luterani tedeschi), perché capisco che quello i preti debbono dire se vogliono essere aderenti al massaggio evangelico, quanto il sostegno materiale (intendo soldi) che danno alle Ong, che a mio avviso con le loro posizioni “di sfida allo Stato italiano” contribuiscono ad esasperare il clima.
Ma detto tutto questo, alla luce di quanto ho scritto nel pezzo di venerdì scorso (https://www.tviweb.it/litalia-compreso-il-veneto-continua-a-regalare-i-giovani-migliori-agli-altri-stati/) dedicato all’emigrazione dei nostri ragazzi verso altri Paesi, è evidente che già adesso si pone il problema dei livelli occupazionali nelle nostre attività produttive.
E lo ha detto chiaramente il Governatore di Bankitalia Fabio Panetta al Meeting di Rimini, senza timori, senza giri di parole.
Cosa ha detto?
In estrema sintesi che l’Italia per mantenere la propria produttività e competitività ha bisogno di misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari. Il problema, ha sottolineato, è di carattere economico, per fare fronte ai rischi che corre il nostro sistema per le pensioni, per il reddito, per il debito, per la produttività, per la crescita, per la manodopera, per gli ospedali, in assenza di nuovi immigrati disposti a fare i lavori che i nostri ragazzi non vogliono più fare.
Capite bene che a questo punto il problema non va più inquadrato nell’ambito umanitario, o del sovranismo etnico, bensì in quello più strettamente economico.
E se la politica non si occupa dell’economia del Paese di cosa deve occuparsi?
E’ evidente che il tema dell‘immigrazione (sottolineo regolare) porti inevitabilmente a quello della cittadinanza.
Da qui gli scontri fra i Partiti che sarebbero favorevoli all’introduzione dello “jus soli” o dello “jus scholae”, e quelli invece, in particolare la Lega, che non ne vogliono neppure sentire parlare, convinti appunto di interpretare il sentiment della maggioranza degli italiani.
Ecco perché all’inizio parlavo di “cause perse”, perché se a dire che gli immigrati sono necessari, e ad insistere per attivare percorsi condivisi per la formazione degli stessi, è il Presidente degli Industriali veneti Enrico Carraro (quindi non un guerrigliero di sinistra o un’anima bella delle parrocchie), ciò dovrebbe mettere almeno una pulce nell’orecchio al Capitano.
Certo le recenti Olimpiadi hanno fatto da detonatore al problema, ma capite bene che è semplicemente ridicolo favorire la concessione della cittadinanza ai campioni perché indossino la maglia azzurra, e rendere il percorso lungo e irto di ostacoli per tutti gli altri ragazzi.
Guardate, sempre per essere chiaro rispetto alle mie idee, io ritengo che non si possa imporre ad un ragazzo nato in Italia da genitori immigrati di credere nel Dio cattolico, di adorare il prosecco o la pizza margherita, e neppure di tifare Vicenza o Padova.
Ma si deve essere invece rigidi nel pretendere che, dopo un certificato corso di studi (di quanti anni ci si può mettere d’accordo) con raggiungimento del relativo titolo, conosca e parli bene la lingua italiana, e soprattutto conosca e rispetti i valori della nostra Costituzione.
Io credo si debba insistere, e ripeto essere inflessibili, sulla formazione, sull’identità e sulla cultura, perché, se accetti di essere italiano, e di conseguenza europeo, lo sei o lo diventi non per il colore della tua pelle, ma perché condividi i principi della civiltà europea.
E quindi non cambio idea sulle conseguenze di una mancata integrazione, che deve per me inevitabilmente concludersi con il rimpatrio nel Paese di origine.
D’altronde cosa ci stai a fare in un Paese che odi ed in cui non vuoi integrarti? Se rimpiangi la tua coltura di origine passi lunghi e veloci (meglio voli frequenti di ritorno).
Capisco bene che quest’ultima impostazione farà inorridire “gauchisti” ed “anime belle”, ma io la penso così, pur non condividendo, come spero di essere riuscito a spiegare, la politica degli steccati di Matteo Salvini.
In conclusione io sono assolutamente favorevole ad ingressi più consistenti di immigrati regolari (e sottolineo regolari), ai quali però non possiamo offrire solo di essere manodopera, ma anche diritti.
Ma questi migranti devono mostrare di apprezzare questa apertura, impegnandosi al massimo nell’integrazione, soprattutto dei loro ragazzi.
Umberto Baldo