20 Dicembre 2019 - 12.36

Natale e il pranzo della discordia

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di Alessandro Cammarano

Ci siamo quasi: la carne per il brodo è stata ordinata, i tortellini – di Valeggio o di Bologna che siano – pure, la mostarda di frutta e il cren stanno felici nei loro vasetti nella dispensa e pronti all’uso, la salsa verde si preparerà il giorno della Vigilia.

Tutto è dunque pronto…per una delle più spaventose occasioni di conflitto nel corso dell’anno: il pranzo di Natale. Narrano alcuni rapsodi – del tutto apocrifi rispetto alla mitologia tradizionale – che Èris, la dea della vendetta vogliosa di scatenare un conflitto di durata più o meno indefinita, prima di optare per la famosa mela da mettere in mano a quel gran bamboccione di Paride, avesse preso in seria considerazione l’idea di un pranzo tra Greci e Troiani in un periodo decembrino insospettabilmente vicino a quello che poi, in epoca cristiana, sarebbe diventato il desco imbandito del venticinque dicembre.

Riflettendoci su anche alla solitamente ardita Èris l’idea di un convivio “familiare” parve davvero troppo; la guerra sarebbe durata ben oltre i dieci anni e le conseguenze, inimmaginabili, avrebbero raggiunto apici di indescrivibile ferocia.

Per arrivare ben carichi al giorno di Natale ci si prepara durante tutto l’anno: si registrano pettegolezzi, si prende nota di eventuali tradimenti coniugali, ci si informa di possibili guai lavorativi, ma soprattutto si rispolverano ricordi di vecchie ruggini – spesso risalenti a tre o quattro generazioni prima – da sfoderare come colpo di grazia all’apparire del panettone e del pandoro che, a questo punto, possono diventare, insieme al più contundente mandorlato, armi vere e proprie di cui servirsi a supporto dell’apparato verbale.

Generalmente la giornata inizia nel più mieloso dei modi – avete presente lo scambio di convenevoli tra cognate in quel capolavoro che è “Parenti serpenti”? – con abbracci e baci fintissimi tra i numerosi commensali che, già dall’aperitivo, iniziano a dividersi in piccoli gruppi sullo stile “street gang” affilando le armi nel ricordo di offese passate più o meno reali.

La distribuzione dei posti a tavola è di importanza essenziale e, se le priorità acquisite non vengono rispettate seguendo canoni che sarebbero sembrati troppo rigidi anche per il protocollo asburgico, allora la bomba rischia di deflagrare anzitempo rovinando tutto il piacere di una lenta combustione della querelle.

Accomodati tutti, fatti i complimenti per il brodo e i cappelletti – ai quali saranno successivamente, e in privato, giudizi da far rabbrividire il più spietato dei critici gastronomici – la conversazione prende immediatamente la piega desiderata, ovvero la peggiore. Basta un nonnulla, un commento sul vino – il cappone secondo alcuni chiamerebbe un rosso leggero, mentre per altri l’ideale sarebbe un corposo piemontese – o sulla qualità della mostarda per dare fuoco alle polveri. I bambini, dirottati su un tavolo loro riservato, assistono e imparano. Allo zio “enologo” fa eco e contraltare un cugino che contrasta le proprietà organolettiche del suddetto rosso e che sarebbero in contrasto con la sapidità eccessiva del brodo; a questo punto entra a gamba tesa una cognata mal sopportata che rincara la dose affermando che il suo bollito è di gran lunga meglio di quello della padrona di casa che, secondo lei, si serve solo dal discount.

La catastrofe è servita: l’ospite piccata va direttamente sul personale, rintuzzando con un ben assestato “tu ti puoi permettere la macelleria migliore, con tutti i soldi che ti dà tuo marito per farsi perdonare delle corna che ti pianta in fronte”.

Le fazioni si schierano, i bimbi assistono con interesse crescente, e da schermaglia a battaglia il passo è breve. Vengono rinfacciati sgarbi secolari, regali non apprezzati, orientamento sessuale di figli non presenti – il cugino ventenne festeggia felicemente a Berlino con il suo compagno, incurante del ginepraio parentale – cattivo gusto, vero o presunto, nel vestire. Si arriva al caffè e all’amaro stremati come i combattenti di Gettysburg ma ancora sufficientemente carichi per l’ultimo assalto che culmina con un icastico “Il prossimo anno ognuno a casa propria!” pronunciato da una prozia che mente sapendo di mentire: chi vorrebbe rinunciare a tanto divertimento?

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