Non solo guerra: a Forte Corbin una storia di coraggio e di amore per la propria terra
Può un forte, simbolo per eccellenza di difesa e protezione, diventare un luogo di ospitalità aperto alla cultura e alla gente? La risposta è sì, se si chiama Forte Corbin. Situato nella zona occidentale dell’Altopiano dei Sette Comuni, in prossimità del Monte Cengio e del paese di Tresché Conca, il Forte di Punta Corbin fu uno dei forti italiani che costituivano la linea difensiva sulle Prealpi vicentine. Finita la guerra, il Corbin fu utilizzato per qualche anno dall’esercito come caserma per addestramenti, per poi essere abbandonato verso la fine degli anni Venti. Quando nel dopoguerra si sviluppò l’attività dei recuperanti, per la struttura del Forte Corbin fu una disfatta. Lo Stato, non potendo più servirsi di un edificio compromesso, lo mise in vendita. È a questo punto che la storia della famiglia Panozzo si intreccia con quella del Corbin: nel 1942 Emilio Panozzo, contadino di Tresché Conca, acquista il forte che diventa proprietà privata. Da allora tante cose sono cambiate: i primi lavori di recupero iniziano negli anni Ottanta, realizzati dal figlio del proprietario Severino Panozzo e dalla moglie, che si dedicano per decenni al restauro del forte, rimuovendo le macerie che ingombravano completamente la fortezza, liberando la zona dalla vegetazione infestante, ricostruendo parti distrutte e mettendo in sicurezza la fortezza affinché fosse visitabile. Anno dopo anno, le persone accorrono sempre più numerose per conoscere la storia del Forte, testimone di una guerra che per sempre cambiò l’aspetto dell’Altopiano e la vita degli altopianesi, ma anche una storia d’amore per la propria terra, di sacrificio e coraggio che dura da più di settant’anni: quella della famiglia Panozzo. Tra essere un forte e l’essere forte, forse il significato non è poi così distante. Ne parliamo con Ilaria Panozzo che insieme al marito si prende cura di Forte Corbin.
Ciao
Ilaria, ci racconti la storia della tua famiglia?
«Quando
mio nonno ha comprato il Forte nessuno si interessava di Grande
guerra. L’aveva comprato per motivi agricoli. Mio papà ha
cominciato, negli anni Ottanta, a sistemare la fortezza senza un vero
e proprio progetto in mente, pensando inizialmente di poterlo usare
privatamente come una rimessa. Mentre lavorava arrivavano spesso
delle persone interessate a visitare il luogo, così si è messo a
sistemare le zone più pericolose e ha cominciato a fare ricerche sul
Forte per conoscere meglio la sua storia. Da cosa nasce cosa e in
questo modo si è svolto, spontaneamente e quasi inconsapevolmente,
il processo di musealizzazione del Corbin, avvenuto con molti sforzi
fisici ed economici e senza alcun contributo o sostegno pubblico. Io
e mio fratello siamo cresciuti al Forte, dove si passava tutto il
tempo libero, le ferie e i weekend. Mio papà infatti durante la
settimana lavorava e quando non era a lavoro dedicava, insieme a mia
mamma, tutto il suo tempo al restauro della fortezza. Hanno poi
deciso di aprire un piccolo bar per potere offrire bibite e vivande
ai visitatori che giungevano qui a piedi. Sono cresciuta e ho
studiato lettere moderne. Pensavo di fare l’insegnante, ma dopo una
tesi sul turismo nei luoghi della Grande guerra, questo è diventato
il mio lavoro: insieme a mio marito ci occupiamo del Forte a tempo
pieno».
Passo dopo passo, siete riusciti a continuare con gli interventi di restauro così da ampliare anche l’esperienza di visita e da rendere il Forte un luogo sempre più accogliente. Quali sogni avete realizzato e quali vi piacerebbe realizzare?
«Abbiamo realizzato un percorso numerato, installato dei pannelli descrittivi, pubblicato un piccolo libro per approfondire la storia del Corbin. Siamo soddisfatti dei risultati che abbiamo raggiunto: ogni anno il Forte si trasforma e migliora. Uno dei sogni più grandi che abbiamo realizzato è stato quello di riuscire a sistemare le cucine. Con questa nuova zona, abbiamo arricchito il percorso di visita. Ci sono molte altre cose che vorremmo fare. Tra le più urgenti, ma anche impraticabili, ci sono le sei cupole che sono state rimosse negli anni Venti. Ci piacerebbe molto avere la possibilità di metterle nuovamente, così da salvare gli interni dalle intemperie, ma non so se arriveremo mai a realizzare questo progetto perché si tratta di un investimento economico molto importante. Ci vorrebbe la volontà e il supporto di uno sponsor esterno. Mi preme poi realizzare un’audioguida per migliorare l’esperienza di visita. In questo modo chi non ha voglia o tempo di soffermarsi a leggere i pannelli può sempre ascoltare la storia. Dobbiamo trovare una soluzione compatibile con tutte le problematiche che la montagna comporta: la mancanza di rete, la poca corrente, e così via».
So
che avete ricavato uno spazio espositivo all’interno del Forte.
Quale mostra ospitate in questo momento?
«Quando
abbiamo sistemato la zona delle cucine, siamo riusciti a ricavare due
stanze. Proprio qui ospitiamo ogni anno una mostra diversa di modo da
potere arricchire la visita alla fortezza. In questo modo, il
visitatore trova sempre qualcosa di diverso.Fino
al 31 ottobre ospiteremo la mostra fotografica “Squarci di luce
sulla storia” di Gigi Abriani. La mostra è tratta da due libri
fotografici sui luoghi della Grande guerra in notturna, frutto di un
lavoro impegnativo e minuzioso».
Quali
attività organizzate durante l’anno?
«Non
esiste il Forte senza eventi. Al di là delle visite guidate, da
sempre mi piace organizzare numerosi appuntamenti con amici
musicisti, attori e scrittori. Purtroppo dobbiamo stare molto attenti
alle spese e devo ringraziare tutti coloro che vengono ad arricchire
il calendario di eventi del Forte per amore della cultura e per
l’amicizia che abbiamo costruito in questi anni. Le cose che
nascono per passione e non per denaro sono le cose più belle. Tra
gli eventi più particolari, abbiamo organizzato una degustazione di
vini con approfondimento sulla storia del vino dalla Mesopotamia ad
oggi. C’è stato spazio anche per una rappresentazione teatrale
sulla Vaca mora o per delle visite serali guidate con la presenza
degli evocatori. Senza dimenticare gli immancabili pomeriggi
letterari e le presentazioni di libri. In questo modo cerco di
portare al Forte persone con interessi diversi perché trovo sia
fondamentale portare l’attenzione sulla Grande guerra e non
dimenticare la storia. Dopo la Prima guerra mondiale l’Altopiano
dei Sette Comuni non è più stato lo stesso, sia a livello
ambientale che culturale. Gli altopianesi sono dovuti scappare e si
sono dispersi in tutto il nord Italia. C’è stata una grandissima
frattura culturale. Quelli che son tornati non volevano più saperne
di parlare il Cimbro perché la loro vita non era più la stessa,
anche se la guerra era finita. Noi altopianesi siamo il frutto di
tutto quello che la guerra ha portato. Per questo non parlo solo di
guerra, ma mi piace che la gente rifletta sulle sue numerose e spesso
devastanti conseguenze».