PASSAGGIO A NORD – Gli alberi raccontano il cambiamento climatico: sarà una pianta a salvarci?
di Anna Roscini
Il mondo sta cambiando e, con esso, anche le nostre montagne. I ghiacciai si sciolgono, gli alberi si spezzano, la terra si sgretola. Son costrette a cambiare il volto e poi la pelle. Raccontano di storie tristi che non vorremmo sentire, né tanto meno vivere. Eppure esistono e resistono, per lo più inascoltate. Sono passati quasi undici mesi dal giorno in cui la tempesta Vaia si è abbattuta a sud delle Alpi, dimostrando che la natura sa essere forte, anche nella distruzione. Ne parliamo con Paola Favero, autrice, insieme a Sandro Carniel, del libro “C’era una volta il bosco: gli alberi raccontano il cambiamento climatico. Sarà una pianta a salvarci?”.
In viaggio con Vaia…
c’è
traccia di episodi simili nel passato in Italia?
«Il
mattino dopo la tempesta, mi sono resa conto, già dalle prime immagini, che era
successo qualcosa di unico. Dopo trent’anni che lavoro nei boschi come forestale,
non avevo mai visto una devastazione così ampia. È stato colpito tutto l’arco
alpino: dalla Lombardia al Friuli fino in Austria. Da quando ci sono memorie
storiche, non si è mai vista una cosa del genere a sud delle Alpi. Una volta gli
alberi avevano un grande valore: interi popoli hanno sviluppato la loro civiltà
intorno al bosco. Basti pensare alla Repubblica di Venezia con la sua flotta
mercantile: è chiaro che per loro era un bene prezioso e qualsiasi cosa
accadeva alle piante veniva segnalata, registrata, misurata e si cercava di
trovarvi un rimedio. Ho analizzato tanti documenti: ogni piccolo schianto
locale e ogni albero caduto veniva segnalato. Se fosse successa una cosa così vasta,
l’avrebbero senz’altro riportata. D’altro canto, anche i dati metereologici ci dicono
che è la prima volta che abbiamo dei venti così forti nelle nostre zone. Certo,
anche in passato ci sono stati schianti da vento provocati da violenti temporali,
che a loro volta originavano dei forti differenziali di pressione, ma sempre
localizzati».
Ci sono stati eventi
simili in Europa? Come li hanno affrontati a nord delle Alpi?
«Quando ho iniziato a scrivere il libro mi ricordavo dei danni dell’uragano
Lothar, che ha provocato 246 milioni di metri cubi di schianti, ma non avevo
mai realizzato che ogni anno in Europa ci sono almeno due uragani di questo
tipo che abbattono in media 38 milioni di metri cubi di alberi. È dagli anni ˈ80
che in Europa avvengono sempre più frequentemente uragani simili, e da allora si
scrivono manuali su come contrastare questi tipi di eventi, si cerca di potenziare
la filiera forestale e di sviluppare in maniera differente il mercato del legno,
nonché di trovare soluzioni per intervenire nei boschi devastati. Ed è da
allora che qualcuno raccomanda di provvedere anche in Italia, finché è successo
davvero: siamo stati colpiti da un uragano come quelli che si sono abbattuti a
nord delle Alpi. Non eravamo preparati, non abbiamo dato ascolto a chi aveva
scritto che eventi del genere sarebbero arrivati anche da noi. Mentre negli
stati europei si sono attrezzati per fare fronte ad eventi di questo genere in
Italia non si è fatto nulla, anzi in molte regioni si è depotenziata la
forestale, soprattutto negli ultimi anni. Di fronte all’episodio di Vaia, l’Alto
Adige, dove esiste ancora un corpo forestale molto efficiente, è stato molto
più pronto e si è iniziato subito a tagliare gli alberi caduti, recuperando
velocemente il legname per usarlo soprattutto nel mercato locale. Nel Veneto invece
si è partiti mesi dopo con l’intervento di ditte boschive austriache, e si sta
vendendo la maggior parte del legname in Cina, trasportando migliaia di metri
cubi di legname attraverso l’oceano, poiché là viene pagato di più».
Come mai negli ultimi
anni i fenomeni di vento forte sono aumentati? Eventi meteorologici estremi
come Vaia sono riconducibili al riscaldamento globale?
«La
depressione Vaia, come viene spiegato nel libro dal mio collega oceanografo, è
scesa a sud ed è rimasta bloccata nel Mediterraneo tra due alte pressioni. Ha
cominciato così a ruotare su sé stessa, trovando un mare due-tre gradi più
caldo del normale. Si è caricata quindi di umidità e il differenziale di
pressione tra il caldo che c’era in Italia in quei mesi (a fine ottobre si
registravano circa 28 gradi) e il freddo di questa bassa pressione ha creato
dei venti fortissimi. In natura tutto tende a livellarsi: più forte è il
differenziale, più ci sono venti forti e, di conseguenza, eventi estremi. Il
problema è che col riscaldamento del clima abbiamo temperature sempre più alte,
quindi un differenziale sempre più alto e uragani sempre più forti in tutto il
mondo. Ciò di cui siamo ormai certi è che il riscaldamento globale sia
all’origine dell’aumento di intensità e frequenza di eventi estremi. Se il Mediterraneo
è più caldo di tre gradi è chiaro che vi è una massa di energia enorme in gioco
che da qualche parte deve sfogarsi. Non bisogna poi dimenticare che anche la
vegetazione influenza il clima stesso: se le piante vengono bruciate o spazzate
via, ci sarà meno ombra, meno fresco, meno umidità, meno evaporazione e pioverà
meno. Dobbiamo iniziare a pensare come un pianeta, non come un singolo popolo. Il
fenomeno del cambiamento climatico interessa tutta la terra e proteggere i
nostri boschi dovrebbe essere una priorità».
Che cosa ci insegna
Vaia?
«Ciò
che è successo è gravissimo, non solo per la grande quantità di alberi
abbattuti (per fortuna l’Italia è molto boscosa e Vaia ha distrutto solo il 4%
dei boschi italiani al contrario delle due tempeste che in Slovenia hanno
abbattuto il 40% delle piante), quanto per quello che questo evento ci vuole dire.
Gli alberi, che hanno impiegato milioni di anni di evoluzione per arrivare a
vivere in sintonia e ad essere in perfetto equilibrio con l’ambiente circostante,
in modo da produrre il massimo ed essere capaci anche di resistere ai vari
disturbi ambientali, come anni siccitosi, infestazioni di insetti od altro, questa
volta non sono riusciti a stare al passo coi cambiamenti. I fattori
dell’ambiente si sono modificati troppo velocemente, a causa dell’influenza
dell’uomo. Le capacità di resistenza meccanica e di resilienza delle piante,
ovvero la capacità di assorbire i disturbi, sono state superate. Ed è grave, perché
pur impiegando centinaia di migliaia di anni, le piante sono molto più brave
dell’uomo ad adattarsi. Ci sono piante capaci di vivere nel deserto o in zone
di acqua salata, e, per quanto riguarda il vento in Patagonia, ad esempio, ci
sono i faggi australi capaci di resistere a venti che toccano i 200 km/h, ma
sono piante che si sono evolute nell’ambiente della Patagonia in moltissimo tempo.
Ci sono delle modifiche nel nostro ambiente di vita che possono essere
devastati per i nostri ecosistemi e, di conseguenza, anche per noi».
Perché non è possibile
ricostruire i boschi che sono caduti come spesso hanno affermato?
«Un
bosco è un ecosistema formato da milioni di piante, microorganismi, batteri,
funghi, insetti, animali: non si tratta solo di un insieme di alberi. Quando un
ecosistema cade così drasticamente, non possiamo dire “lo rifacciamo uguale a
prima”. Non siamo Dio, non abbiamo questi poteri: ci vogliono centinaia, se non
migliaia di anni, affinché un ecosistema si ricostruisca e non saranno comunque
i boschi di prima. È aumentata la temperatura media e quindi le piante che ora
vivono a certe quote sono diverse da quelle che c’erano prima. È probabile che
nei boschi che si ricostituiranno arrivino alberi e piante del sottobosco che
prima eravamo abituati a vedere più in basso. C’è una risalita di specie verso
l’alto».
“Un mondo sta
scomparendo, un altro sta iniziando” scrivi. Che cosa ci aspetta?
«Non
sappiamo cosa ci aspetta e la cosa più importante che dovremmo capire è che
nessuno è in grado di fare previsioni. Perché il mondo a cui siamo abituati sta
scomparendo: scompaiono i ghiacciai, cambiano le montagne, ci sono un sacco di
frane, il terreno è diverso da prima. Contemporaneamente al cambiamento
ecologico ce n’è uno culturale: come abbiamo visto prima il rapporto con gli
alberi è completamente cambiato. Il legno che viene tagliato in Italia va in Cina
dove fanno i mobili e poi li riportiamo in Italia, così facciamo due volte il
giro del mondo inquinando a dismisura solo per un conteggio puramente economico
legato solo al profitto. Cinquant’anni fa sarebbe stato impensabile: era
un’economia più legata al territorio e basata su altri valori. Oggi purtroppo la
cultura del bosco è diventata un’industria. Negli ultimi anni la selvicoltura, ovvero
la gestione dei boschi che in Italia era una selvicoltura naturalistica o ecosistemica,
sta lasciando il posto alla selvicoltura attiva che torna a privilegiare
l’aspetto produttivo del bosco, per fornire più legname per le varie esigenze e
soprattutto per le nuove centrali a biomassa, su cui bisognerebbe fare una
profonda valutazione e riflessione poiché non sempre sono così efficienti ed
ecologiche come si pensa. Inoltre si
usano sempre più spesso nuovi macchinari di taglio ed esbosco molto più efficienti
dal punto di vista economico, ma molto meno rispettosi del bosco e dei tempi
della natura. Non sappiamo cosa succederà,
il clima sta cambiando velocemente, ma gli uomini molto lentamente. Il fatto di
vedere che non possiamo prevedere nulla lo dimostrano proprio gli incendi di
quest’anno. I libri ci dicono che negli ultimi anni in Europa i danni ai boschi
sono stati per il 50% da vento e il 15% da incendi. L’incendio di quest’anno
che c’è stato in Russia ha fatto cambiare questa percentuale: in Siberia sono
andati bruciati circa 9 milioni di ettari. Per capire la proporzione, Vaia ha
devastato 42 mila ettari. Dovremmo pertanto ricordarci due cose: la complessità
degli ecosistemi e l’imprevedibilità di quello che succederà. Dovremmo cambiare
radicalmente stile di vita e il sistema consumistico stesso. Perché non può
sopravvivere una civiltà basata sul consumo, quando il consumo supera le
capacità di produzione del luogo in cui sei».