PASSAGGIO A NORD – Un centro per curare e fare tornare i rapaci a volare in libertà
di Anna Roscini
Se la natura non mi ha dato le ali, forse non è mio destino volare, scriveva Giorgio Faletti. C’è chi però da sempre si adopera perché a volare siano gli altri. In questo caso, i rapaci feriti e debilitati. Il Centro Riabilitazione Rapaci di Vicenza è il luogo delle seconde possibilità. Fin da bambino il falconiere Alberto Fagan coltiva la passione per i rapaci e proprio nel CRR ospita e cura gli esemplari in difficoltà, o alleva specie rare e minacciate che è importante tutelare nell’ambito di progetti di ripopolamento. Situato nel comune di Arcugnano, presso il Lago di Fimon a pochi chilometri da Vicenza, il CRR nasce nel lontano 1983 da una collaborazione con il WWF e l’Amministrazione provinciale di Vicenza.
Quali sono le finalità
del centro?
«Il recupero alla vita selvatica di esemplari di rapaci diurni e notturni
ritrovati in difficoltà nel territorio, prevalentemente vicentino. All’inizio
ne arrivavano un po’ da tutta Italia perché eravamo tra i pionieri di queste
iniziative. Adesso quasi ogni provincia ha il suo centro di riferimento».
Quanti rapaci passano in
media annualmente per il centro?
«Annualmente sui 120-130 esemplari. Possono essere animali giovani rimasti
orfani o esemplari malati, a causa di tutta una serie di patologie naturali. Abbiamo
anche casi di investimenti stradali e di bracconaggio. La causa principale di
mortalità per i rapaci diurni rimane però l’elettrocuzione, specie per il falco
gheppio, molto diffuso nel territorio, ma anche per le poiane, i falchi
pellegrini, i falchi pescatori e gli avvoltoi. Appoggiandosi ai pali della
corrente elettrica possono prendere la scossa e morire sul colpo o comunque subire
delle ustioni importanti nei punti di contatto. Si tratta di un grosso problema
che inizia ad essere riconosciuto nella sua reale entità perché ci sono molti
avvoltoi, come il gipeto, il grifone e il capovaccaio, che subiscono questa
triste fine. Ci sarebbero diverse tecniche per isolare i tralicci, ma serve l’interessamento
pubblico e politico: c’è un sistema da correggere. Queste tecniche sono già
state utilizzate sia in Italia che all’estero: basti pensare che in Spagna
stava per scomparire un’aquila che vive solo lì e per salvarla sono state
modificate delle intere linee elettriche».
Gli animali che passano
per il centro vengono poi liberati in natura o ci sono degli esemplari che non
possono essere reimmessi?
«Lo scopo è reimmettere i rapaci in natura. Per tornare in natura bisogna
essere ben equipaggiati. Non si può tornare camminando, bisogna volare bene ed essere
in perfetta forma fisica, altrimenti la natura scarta gli esemplari fuori
standard. Ci sono alcuni rapaci che sono rimasti qui, altri hanno ferite tali
che non sono compatibili con un’esistenza dignitosa neanche in cattività per
cui bisogna purtroppo procedere all’eutanasia per non allungare le loro
sofferenze. Tra gli animali che restano in questo momento abbiamo un biancone per
esempio che non è in grado di volare e due aquile che son sotto sequestro
giudiziario».
Cosa fare se si trova un
rapace in difficoltà?
«Bisogna
prima di tutto preoccuparsi di catturarlo in qualche modo perché poi potrebbe
scomparire, nascondersi in un cespuglio e diventare irreperibile. In queste
situazioni i rapaci sono a pochi giorni o a poche ore dalla fine e possono
essere anche predati da animali selvatici. Quando ci avviciniamo a loro non
bisogna dimenticarsi che sono degli animali selvatici che ci vedono in quel
momento come dei pericolosi aggressori e quindi si difendono in tutti i modi
possibili. La cosa migliore da fare sarebbe quella di lanciare sopra
all’animale uno straccio in modo da coprirlo e poi raccoglierlo dalla schiena,
chiudendo con le dita le zampe sul corpo. A questo punto è meglio metterlo
dentro una scatola di cartone, facendo un paio di fori e chiudendo la scatola
con del nastro isolante. Bisogna chiamare subito qualcuno che sa cosa fare in
queste situazioni: l’Amministrazione provinciale, l’Enpa, noi o i carabinieri
forestali che poi smistano le chiamate a chi di dovere. È fondamentale non dare
mai da mangiare o da bere a questi animali perché possono vivere anni senza
bere un goccio d’acqua, traggono il liquido soprattutto dalla parte grassa del
cibo che mangiano. Se tengono il becco aperto in atteggiamento terrifico è
perché cercano di spaventare l’aggressore non perché hanno sete. Anche nel caso
di nidiacei di rapaci notturni non bisogna dare loro da mangiare, perché si comincia
ad instaurare il processo dell’imprinting, ovvero il riconoscimento dei
genitori. In questo caso non devono scambiare gli umani per i loro genitori.
Una volta fissato, l’imprinting rimane per tutta la vita rendendo l’animale
incapace di avere una vita normale, ovvero di riconoscere i propri simili, di
accoppiarsi e così via».
È possibile visitare il
centro?
«Organizziamo da anni attività per le scuole. Riceviamo le scolaresche e
facciamo vedere ai bambini questi rapaci, illustrandone le problematiche, con
cenni di ecologia ed etologia in base all’età degli alunni. Ogni anno c’è la
giornata delle fattorie didattiche aperte e in quell’occasione chiunque può
venire».
Come nasce questa
passione?
«Questa
passione nasce dalla mia infanzia, sono nato in una famiglia di cacciatori e ho
avuto l’occasione di vedere rapaci vari già da piccolino. Un mio parente mi ha
regalato un libro che parlava della falconeria e questo mi ha dato modo di
appassionarmi moltissimo e di cominciare ad avvicinarmi a questi animali.
Stiamo parlando degli anni Sessanta, epoca in cui i falchetti li vendevano in Piazza
dei signori il martedì e il giovedì. Sono così diventato falconiere e ho
imparato a dare da mangiare ai rapaci e a farli volare. Poi quando sono
diventato più grandicello, andavo in montagna ad osservare i rapaci con degli amici
del WWF e loro sapevano che avevo questa capacità già sviluppata di addestrare
i rapaci che era propedeutica al recupero di questi animali. Addestrando i
rapaci, si sa già come trattare questi animali: si sa quali possono essere i loro
problemi e si capisce se un animale è in grado di predare da solo o non lo è.
Poi Giustino Mezzalira mi ha proposto di aprire un Centro, il WWF non aveva una
struttura che fosse in grado di andare incontro a queste esigenze di recupero. A
quel punto mi hanno contattato e ho preso in mano con entusiasmo questa
opportunità».
Quali sono i progetti a
cui ha partecipato nel corso degli anni per la tutela di specie rare e
minacciate?
«Negli anni 2000 ho allevato i primi cinque esemplari di capovaccai, una specie
quasi estinta in Italia, per un progetto toscano che da oltre vent’anni li alleva
con il fine di liberarli in natura. Mi hanno consegnato cinque ovetti e ho
riconsegnato loro cinque avvoltoi capovaccai allevati: è stato un bel successo.
Poi ho collaborato per una ventina d’anni per il Parco Natura Viva allevando
una specie di avvoltoio considerato nel mondo in pericolo critico di
estinzione. Si tratta dell’avvoltoio reale indiano. Lo zoo di Bussolengo aveva inizialmente
cinque avvoltoi di questo tipo e mi sono occupato di riprodurli. Il Parco Natura
Viva è l’unico zoo del mondo che sta allevando questa specie di avvoltoio
nell’ambito di un progetto internazionale con l’intento di ripopolare
l’ambiente naturale. Siamo ai primi passi, naturalmente prima bisogna avere uno
stock riproduttivo che si mantiene da solo e poi il frutto dello stock
riproduttivo viene rilasciato in natura. Come è stato fatto con il gipeto sulle
Alpi: i gipeti erano scomparsi da cent’anni in questa zona, finché non hanno
cominciato a liberare gipeti allevati negli zoo e ora è un animale inserito in
maniera definitiva in natura, è ritornato. I parchi zoologici di oggi lavorano
con queste finalità: lo scopo è sempre quello della salvaguardia delle specie
in natura».