Pensioni: chi le pagherà?
Qualche giorno fa sui media è apparsa la notizia che la Germania avrebbe intenzione di cambiare politica rispetto agli stranieri, nel senso di essere più disponibile ad aprire le frontiere ai migranti, purché dotati di certe professionalità.
Scelta in qualche modo obbligata perché, a fronte di circa due milioni di posti di lavoro “scoperti”, anche le imprese tedesche non riescono a trovare la manodopera necessaria.
Magari ritorneremo su questa scelta più avanti, ma questo cambio di passo dei tedeschi risponde ad un problema ben preciso, comune a buona parte dei Paesi europei: quello dell’invecchiamento della popolazione.
Lo so bene che si tratta di notizie che cerchiamo di “saltare”, perché indubbiamente sono angoscianti, ma far finta di niente serve a poco.
L’Europa è un continente ingrigito. Nove delle dieci nazioni con la più alta percentuale di popolazione di ultrasessantacinquenni al mondo si trovano in Europa.
L’Italia è sempre più un Paese di vecchi, e quindi anche per noi si pone la domanda: i sistemi pensionistici del continente possono far fronte ad una crisi demografica, con una forza lavoro in calo che sostiene una coorte in continua crescita di pensionati anziani?
Questa è la prima domanda, in realtà la domanda delle domande oserei dire, ma non si può trascurare anche quella relativa alla sostenibilità prospettica di tutto il welfare, sanità in testa.
E guardate che se pensate sia un problema del futuro, vi sbagliate di grosso!
E’ solo di qualche giorno infatti la notizia che nel 37% delle province italiane il numero dei pensionati supera quello degli occupati.
A Reggio Calabria i lavoratori attivi sono 67 ogni 100 pensionati, ma in quasi tutte le principali città del Sud sono sotto la parità, con alcune eccezioni: a Bari ci sono 102 occupati ogni 100 pensionati, a Matera 105, a Barletta 111.
Nel dettaglio le provincie i cui i pensionati sono più numerosi dei lavoratori attivi sono: Catanzaro, Crotone, Vibo Valentia, Messina, Foggia, Napoli, Lecce, Cosenza, Caltanissetta, Oristano, L’Aquila, Taranto, Terni, Nuoro, Isernia, Benevento, Palermo, Campobasso, Agrigento, Potenza, Trapani, , Enna, Ancona, Rieti, Catania, Perugia, Siracusa, Ascoli Piceno, Avellino, Salerno, Chieti, Savona, Asti, Biella, Ferrara Imperia, Vercelli, Rovigo.
Come vedete è un problema per tutti, anche se è innegabile che la preponderanza di provincie meridionali rappresenti lo specchio di un’Italia che non è mai riuscita a superare il gap Nord-Sud.
Come accennato, quello della denatalità è un problema generale di tutte le economie avanzate, ed è di questi giorni anche l’allarme che arriva dal Giappone.
Ma relativamente a questa tematica non è proprio il caso di consolarsi con il classico “mal comune mezzo gaudio”.
Perché con la diminuzione del rapporto lavoratori attivi/pensionati la prima casella a infiammarsi nel bilancio pubblico di un Paese che invecchia è ovviamente quella relativa alla Previdenza.
Come ampiamente noto, il nostro è un sistema pensionistico a ripartizione, nel quale cioè i contributi versati da chi lavora servono a pagare gli assegni a chi è già in pensione.
Di qui l’importanza di una platea di occupati ampia, in grado di finanziare il più possibile la Previdenza; perché la parte non coperta dai contributi finisce inevitabilmente a carico della “fiscalità generale”; che per capirci meglio vuol dire più deficit e più debito per lo Stato.
E pensare che con questi numeri ci sono ancora forze politiche che straparlano di “superamento della legge Fornero”, di quota 103, di anticipi pensionistici, con una visione politica che definire miope è voler essere buoni.
Credo che la situazione sia stata fotografata in modo eccellente dal Ministro Giancarlo Giorgetti, che in una recente intervista ha dichiarato: “Non esiste età pensionabile, e non esiste riforma della previdenza che sia compatibile con gli attuali tassi di fecondità in Italia”.
Ha ragione, perché l’unica strada per rimettere il sistema in equilibrio sta nell’aumento della popolazione attiva, di coloro cioè che lavorano e pagano contributi.
Per cui, visto che certi lavori i giovani italiani non vogliono più farli, o li si convince (compresi i relativi genitori) che non tutti possono fare gli “influencer”, e che servono anche saldatori e camerieri, oppure nell’immediato si dovrà giocoforza ricorrere all’immigrazione, magari cercando per quanto possibile di “filtrarla”, cercando cioè di privilegiare persone dotate di certe competenze, (con buona pace della Schlein e dei buonisti nostrani?) come sembra aver deciso la Germania, ma in contemporanea mettendo in campo anche adeguate politiche per favorire la natalità, ammesso che si riesca a costruirle, e soprattutto a renderle efficaci, visto che sono necessari decenni per vedere i loro frutti.
In quest’ottica è evidente che inevitabilmente il tema chiave su cui è necessario spostare l’attenzione sono le donne, una leva essenziale per aumentare il gettito contributivo e, contestualmente, il tasso di fecondità, attraverso politiche a sostegno dell’occupazione e della famiglia.
Ma c’è anche un altro aspetto da non sottovalutare. Quello che, se questa situazione non dovesse migliorare, si potrebbero innescare conflitti generazionali, perché ad un certo punto i giovani potrebbero legittimamente porsi la domanda: ma io per chi li pago i contributi?
Per i vecchi di oggi? E quando sarà il mio turno chi la pagherà a me la pensione?
Con tutto quel che ne potrebbe conseguire anche in tema di ordine pubblico, e di maggiore propensione dei giovani ad emigrare all’estero.
Non date retta alle soluzioni miracolistiche che ogni tanto qualche politico, o qualche Partito, propongono al fine di conquistare le prime pagine dei giornali, specialmente nell’imminenza di tornate elettorali.
L’emergenza demografica dovrebbe essere prioritaria nell’agenda politica dei Governi, e se mi consentite anche delle forze che si trovano all’opposizione, e di tutti i corpi intermedi, Sindacati in primis.
Perché la Previdenza non può continuare ad essere materia di scontro politico-elettorale, in quanto travalica gli attuali assetti politici, e per invertire la tendenza servono scelte anche dolorose, che in qualche modo bisogna far capire e digerire agli italiani, visto che si parla del futuro dei nostri ragazzi.
Nessuno può sottrarsi a questa sfida, a questa vera e propria emergenza sociale, perché deve essere chiaro a tutti che se ci saranno sempre più anziani e meno giovani crollerà il PIL, diminuirà quindi la ricchezza, e con essa andrà a fondo il sistema pensionistico e l’intero sistema del welfare.
E di conseguenza se i costi per le pensioni, così come gli altri costi del welfare, stanno già ora diventano insostenibili, un’Italia di soli vecchi non potrà essere competitiva.
Ecco perché è ormai indilazionabile una chiamata di responsabilità, dalla quale nessuno dovrebbe chiamarsi fuori.
Umberto Baldo