4 Ottobre 2023 - 9.50

Perché imprenditori del Nord Est comprano giornali, data la crisi del settore?

Qualche giorno fa è stato reso noto che Exor, la holding della famiglia Agnelli, chiuderà il prossimo 16 ottobre l’operazione di vendita di sei quotidiani del gruppo GediaNem (Nord est multimedia), società per azioni costituita per iniziativa di  Finint, la finanziaria che fa capo al banchiere Enrico Marchi.

Specifico che i sei quotidiani sono Mattino di Padova, Nuova VeneziaCorriere delle AlpiTribuna di Treviso, Messaggero Veneto di Udine e Il Piccolo di Trieste), e nel pacchetto ci sarebbero anche le due emittenti televisive locali TvA  e Telechiara, di proprietà di Videomedia.

Di questa operazione se ne parlava da tempo, quindi la notizia in sé non è una grande novità, ma questo non toglie che rivoluzionerà il panorama editoriale a Nord Est.

Infatti per quanto l’influenza di giornali e Tv sull’opinione pubblica sia molto ridimensionata rispetto al passato, e su questo tornerò più avanti, gli equilibri nel mondo dell’informazione locale in Veneto e Friuli Venezia Giulia stanno per essere sconvolti.

I nuovi padroni non sono “editori puri”, e per rendersene conto basta scorrerne alcuni nomi: si va appunto dal banchiere di investimento Enrico Marchi, che controlla anche gli aeroporti di Venezia Treviso e Verona, alla friulana Findan (gruppo siderurgico Danieli di Buttrio) presieduta da Giampietro Benedetti (presidente degli industriali di Udine), a Fin.Steel (Acciaierie Venete) del padovano Alessandro Banzato, e a molti altri nomi importanti dell’economia nordestina.

Il progetto di Marchi è molto ampio, e se dovesse andare a buon fine tutti i giornali locali del Nord Est verrebbero saldati in un unico sistema, lasciando fuori solo Il Gazzettino, controllato dal Gruppo Caltagirone. 

Anni fa per concludere una concentrazione del genere, ammesso che te l’avessero fatta fare, bisognava avere tutte le benedizioni della politica; oggi le cose sono cambiate, e la domanda che mi pongo è: a che logica risponde questa operazione nel mondo dell’informazione su carta stampata, che non sta certamente vivendo una delle sue stagioni migliori?

Sicuramente questi imprenditori non si aspettano guadagni stellari, ma va considerato a mio avviso che, pur ridimensionati nella loro diffusione, i giornali sono ancora importanti come mezzi di pressione, e lo scopo dell’operazione potrebbe essere quello di dare voce al territorio Triveneto, magari con l’obiettivo di incidere su future partite nazionali. 

Si tratta di quella che io definirei “partita di potere” all’interno del “Potere”.

La riduzione del “peso” dei giornali ritengo sia un processo inarrestabile, ed è diretta conseguenza del boom di Internet e dei social, della conseguente fuga degli inserzionisti, dei giochi politici e di potere, e della mancanza di innovazione. 

Un mix devastante per i quotidiani italiani, alle prese come accennato con un crollo verticale delle vendite che va avanti oramai da anni, mai bilanciato dalle edizioni digitali.

Ascoltando le “rassegne stampa” (io lo faccio di mattina presto passeggiando) si ha l’impressione che il mondo ruoti ancora attorno a quello che scrivono i giornali, ma guardando i dati di diffusione delle testate spesso mi chiedo perché i politici si preoccupino di qualche articolo poco favorevole, visto che a leggerlo sarà solo una percentuale infinitesima dei cittadini italiani.

Già perché la domanda vera è: quanto vendono i quotidiani italiani?

Se volete una risposta dettagliata ed esaustiva vi consiglio di accedere al sito Mediastorm83 di Lelio Simi, un giornalista specializzato nel settore dell’editoria, che segue l’andamento delle vendite e dei bilanci dei quotidiani, e dove potete trovare i dati aggiornati al primo semestre 2023, confrontati con  quelli del 2022 e 2021.

Vi dico subito che orientarsi fra i numeri relativi alla diffusione dei vari giornali è una vera e propria impresa, per cui  preferisco riportare i dati che ho trovato sul sito Startmag (ottenuti non considerando  quelli delle copie distribuite gratuitamente, oppure ad un prezzo scontato oltre il 70%), che  dovrebbero così  risultare meno “dopati”, e quindi più indicativi della scelta attiva dei singoli lettori di acquistare e di pagare il giornale, cartaceo o digitale.

Quindi, senza entrare troppo nei dettagli, i dati delle vendite relativi a luglio sarebbero questi (sempre fonte Startmag, da Redazione IlPost): Corriere della Sera 181.500 copie, la Repubblica 101mila, Il Sole 24 ore 56mila , La Stampa 73mila, Il Fatto Quotidiano 43mila, La Verità 25mila , Il Giornale 28mila, Libero 23mila, Resto del Carlino 58mila, Messaggero 50mila,  Nazione 38mila, Gazzettino 36mila, Messaggero Veneto, 26mila, Avvenire 15mila, Manifesto 13mila, ItaliaOggi 8mila, Verità 25mila. 

Siete stupiti? Vi sembrano numeri bassi?

Certo siamo ben lontani dagli anni ’80, quando ed esempio la Repubblica era il primo quotidiano con una tiratura di oltre mezzo milione di copie, seguito dal Corriere della Sera con circa 450mila.

Un vero e proprio crollo verticale.

In verità si tratta di un problema globale dell’editoria, che sta proseguendo almeno da una decina d’anni, e che interessa in modo particolare i quotidiani, sicuramente più in Italia rispetto a Francia e Germania.

Il principale fattore del calo delle vendite sta sicuramente nel graduale spostamento dei lettori dalla carta stampata verso Internet ed i social media, ma io credo giochi anche la vecchia contraddizione fra l’informazione che dovrebbe educare, e quella che dovrebbe assecondare. 

Mi spiego meglio.

Uno in un giornale si aspetta di trovare il commento del grande giornalista, l’approfondimento, la spiegazione di cosa ci sia veramente dietro una notizia, sempre tenendo conto che ogni quotidiano ha comunque una propria linea politica.

Nel digitale tutto questo non c’è, in quanto i social assecondano molto di più chi “clicca” sulle notizie, con una attenzione maggiore verso temi più popolari, come il gossip, il sesso, lo sport, il costume. 

In questo mondo gli argomenti più seri come l’economia, la cultura e la politica suscitano meno interesse, e quindi meno clic, e quindi meno incassi. 

Questa è la vera pecca del digitale e del mondo dei social; quello di bruciare notizie su notizie, senza il dovuto approfondimento (e spesso senza il dovuto controllo delle fonti), e di conseguenza abdicando al ruolo che un’informazione seria ed autonoma dovrebbe avere in un sistema democratico. 

Certo non si po’ fare di ogni erba un fascio.  Esistono sicuramente network che forniscono un’informazione all’altezza, e permettetemi di spezzare una lancia a favore di Tviweb,  la cui redazione offre sicure garanzie circa il controllo delle fonti.

Ma non possiamo nasconderci che esistono molti siti il cui obiettivo è solo quello di attirare qualche clic con titoli ”sparati”, e con contenuti al limite delle fake news.

Dopo di che bisogna prender atto che il rapporto fra il mondo dei giovani e l’informazione è profondamente cambiato rispetto solo a pochi anni fa. 

Non c’è più il rito dell’acquisto dei giornali in edicola,  e ora il principale strumento per informarsi  è il proprio smartphone.

Quindi un’informazione in buona parte gratuita, anche se mediata dai portali. 

A ben vedere, il vero tema non è che i giovani non si informano, ma che secondo loro l’informazione non deve costare niente, e si deve trovare facilmente.

Ma tutto questo non porta nulla nelle tasche degli editori, che si vedono costretti a risparmi e tagli delle redazioni, il che porta inevitabilmente ad un impoverimento e svilimento del lavoro e della professionalità dei giornalisti. 

Si tratta di un cortocircuito, di cui al momento è difficile immaginare gli sviluppi.

Come accennavo, non c’è dubbio che si tratta di un problema che ha a che fare con la democrazia.

Solo una stampa libera ha consentito a due giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, di innescare lo scandalo Watergate, che portò alle dimissioni del Presidente Richard Nixon.

Non sono del tutto sicuro che qualora il Presidente  fosse ad esempio Donald Trump, nell’ America di oggi ci sarebbero dei giornalisti disposti a giocarsi la carriera.

E così ritorniamo all’iniziale domanda: perché imprenditori “non puri” acquistano testate giornalistiche?

Marchi non è l‘unico intendiamoci, ce ne sono altri in Italia, dal Gruppo Romeo (Gestioni Patrimoni Immobiliari) che ha acquisito l’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, al Gruppo Angelucci (cliniche e case di cura private) che è proprietario delle testate Il Tempo, Libero e il Giornale. 

Tutto legittimo, sia chiaro, ma non facilmente comprensibile in un’ottica squisitamente imprenditoriale, vista la crisi dei quotidiani.

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