PILLOLA DI ECONOMIA – Chiuso un altro “carrozzone” di Stato
L’Italia è uno dei paesi europei più forti dal punto vista dell’assistenzialismo, delle dimensioni dello Stato, della pressione fiscale, della spesa pubblica e del debito pubblico.
Come corollario di questa “concezione del “ruolo pubblico” si aggiunge a mio avviso la chiara propensione della classe politica per una sempre maggiore presenza dello Stato anche nell’economia.
Ed è una “propensione” che, fattore a mio avviso incomprensibile, è presente sia nei Partiti di sinistra, culturalmente portati, mi si passi il termine forse obsoleto, al “collettivismo”, sia anche nelle forze di destra, dando vita ad un melting pop culturale improntato allo statalismo.
Eppure lo abbiamo visto durante tutta la storia della nostra Repubblica che ogni qual volta lo Stato si sia intromesso direttamente nella gestione di aziende considerate “strategiche” si è assistito ad una enorme dilapidazione di risorse pubbliche.
Gli esempi di “buchi neri”, di “pozzi di san Patrizio” in cui sono stati bruciati pacchi di miliardi non si contano.
Dal “capitalismo di Stato” dell’Iri ai più recenti, ma annosi, casi dell’Ilva, di Alitalia, e del Monte dei Paschi.
E non ci vuole certo un genio per capire il perché di questi disastri.
Quando si dice che lo Stato entra nella proprietà e nella gestione di un’azienda, qualunque sia il settore, in realtà ad entrarvi sono i partiti politici, con le loro logiche spartitorie del potere, ed il loro disinteresse di fatto ad una sana gestione economica; per loro l’importante è piazzare nei posti di vertice personaggi che siano espressione di una parte ben precisa, privilegiando l’appartenenza alla professionalità, anche se questo vuol dire magari non avere risultati eccellenti, e “gettare nel cesso” le tasse dei pagate cittadini (quella minoranza che le tasse le paga ovviamente).
Tanto quei soldi mica sono loro!
Ma guardate che la gestione pubblica non è disastrosa solo nelle grandi aziende, ma anche in quelle di dimensioni ridotte, e magari in settori dove i privati invece fanno utili.
Volete un esempio recente?
Durante il lockdown 2020, durante la fase peggiore del COVID, abbiamo visto teatri affidarsi a piattaforme gratuite come YouTube, o ad altre soluzioni anche caserecce per poter continuare a fare quello che hanno sempre fatto: vendere cultura, ma questa volta in streaming.
Per dare quindi ossigeno al mondo dello spettacolo e dell’arte messi in ginocchio dalla serrata, il Ministro della Cultura Dario Franceschini lanciò l’idea di ItsArt, una startup presentata come il “palcoscenico della cultura italiana”, una sorta di “Netflix de noaltri”.
Per far decollare quest’idea, in sé non malvagia, fu costituita una società di cui il 51 per cento era detenuto da Cassa Depositi e Prestiti, e per il 49 per cento da Chili (uno dei tanti competitor di Netflix).
In realtà Chili fornì solo la piattaforma rodata che usa da anni, mentre Cassa Depositi e Prestiti ci mise i soldi (pubblici) per sostenere un progetto che aveva bisogno di una solida base finanziaria, fornita da 9,8 milioni di euro deliberati con il famoso “decreto Rilancio” del Governo Conte2.
IstArt decollò nel maggio 2021, ma a dicembre i risultati si palesarono già disastrosi.
Secondo il primo bilancio d’esercizio il primo anno di attività ha determinato una perdita di 7,5milioni, bruciati per servizi (5 milioni), beni (1 milione) e personale (900mila euro).
Per contro i ricavi sono stati quasi inesistenti: appena 246mila euro, da cui andrebbero tolti per altro i ricavi indiretti frutto in realtà di partnership commerciali (circa 105mila euro).
I ricavi diretti, cioè gli abbonati veri, sarebbero stati molti meno.
Il pubblico pagante infatti avrebbe oscillato tra i 140 e 200mila euro utenti.
Ovvio che con questi brillanti risultati, i 9,8 milioni messi dal governo si siano esauriti in una manciata di mesi, lasciando il carrozzone ItsArt in balia di se stesso, fino ad arrivare alla sua liquidazione annunciata nei giorni scorsi dal nuovo Ministro della Cultura Sangiuliano.
In realtà il Ministro ha solo reso noto una decisione dei Soci di fine dicembre, che in una lettera dal 29 dicembre al Ministero annunciavano appunto la decisione di chiudere baracca e burattini.
E così dopo neanche un anno di attività, dopo l’avvicendamento al comando di ben tre Amministratori diversi, il “carrozzone” ha staccato la spina, ma come sempre avviene in Italia ora potrebbe entrare in gioco la Corte dei Conti per verificare come siano stati spesi i soldi dei cittadini.
Morale della favola?
ItsArt conferma quello cui accennavo all’inizio.
Non è stata l’idea ad essere sbagliata, ma il fatto di averla voluta sviluppare da una società controllata dallo Stato, Cassa Depositi e Prestiti, sicuramente poco interessata al “business culturale”.
Per non dire che al Ministero non avevano messo in conto che gli italiani sono restii a pagare per contenuti culturali che possono trovare in altre piattaforme private gratuite.
Il caso ItsArt dovrebbe quindi rappresentare un monito per il settore pubblico: quello di non impegnarsi mai direttamente nell’economia.
Lo Stato deve scrivere le regole, non far volare gli aerei, solo per fare un esempio!
Perché l’esperienza italica ci insegna che in qualunque tipo di business dove i privati riescono a guadagnare, lo Stato finisce per perderci.
Meglio a far perdere i cittadini contribuenti.
Un’ultima notazione: badate bene che la spesa pubblica non è fatta solo di grandi importi. La più parte consiste in “qualche milione di qua, qualche milione di là”, che però alla fine di sommano nel grande mare del debito dello Stato.