21 Febbraio 2023 - 10.07

PILLOLA DI ECONOMIA – Mancano le armi per Kiev?

Certo si fa presto a dire: sosterremo Kiev, e quindi forniremo tutte le armi di cui ha bisogno per respingere l’aggressione russa.

A parole sembra facile, ma tutto sta diventando invece sempre più difficile perché la guerra in Ucraina sta assumendo caratteristiche del tutto diverse dai conflitti tipo l’Iraq o l’Afghanistan, in quanto assomiglia sempre più alla cosiddetta “guerra di trincea” della Prima Guerra Mondiale, quando milioni di soldati hanno passato anni in buche scavate nel terreno combattendo per conquistare pochi metri di terreno, che poi venivano ripersi poco dopo al costo di incalcolabili perdite umane.

Questo passaggio da “guerra dinamica” a “guerra statica”, in cui si combatte per difendere le posizioni acquisite, cercando di non far avanzare ulteriormente il nemico, ha una conseguenza diretta piuttosto pesante; un grande dispendio di munizioni, ben superiore a quello di altri tipi di conflitto.

E lo ha spiegato chiaramente Jens Stoltenberg, severo Segretario Generale norvegese della Nato, noto appunto per essere uno che misura le parole, quando nei giorni scorsi ha detto: “L’attuale tasso di utilizzazione di munizioni da parte dell’Ucraina è molte volte superiore ai nostri livelli di produzione. Questo mette a dura prova le nostre industrie della difesa”.

Badate bene che i problemi sollevati da Stoltenberg sono sia di tipo matematico-logistico, che di tipo economico.

Partiamo dalla matematica.

Si stima che ogni giorno russi e ucraini arrivino a spararsi fino a 30mila colpi di artiglieria, cui si aggiungono proiettili, mine di terra, bombe a mano e altre munizioni.

Numeri stratosferici, che stanno rapidamente assottigliando le riserve di munizioni dei contendenti in campo, anche se non è agevole per le Intelligence occidentali stimare le reali condizioni degli approvvigionamenti russi.

Ma per quanto riguarda la parte Ucraina i conti sono molto più facili da fare, perché le armi gliele forniamo per la più parte noi Europei, unitamente agli Stati Uniti.

E tanto per avere un’idea, finora solo gli Usa hanno fornito a Kiev armi per un valore di oltre 29 miliardi di dollari.

Ma come è facile capire, con l’utilizzo massiccio che se ne fa sul campo, le dotazioni dei Paesi che inviano armi all’Ucraina si stanno riducendo al lumicino, ed a questo si sommano problematiche legate alla produzione.

E qui entra in ballo un altro concetto; quello che mentre in questa fase la Russia è tutta concentrata sulla produzione di armi, le economie dei Paesi occidentali stanno marciando normalmente.

In altre parole i Paesi che inviano armamenti all’Ucraina, come l’Italia ad esempio, non hanno assolutamente adottato un’economia di guerra, per il semplice motivo che non sono formalmente in guerra.

Come è noto si definisce “economia di guerra” un tipo di economia in cui lo Stato indirizza buona parte della sua produzione sullo sforzo bellico:  e ciò comporta che molte imprese vengano riconvertite nella produzione di armi, e anche i lavoratori siano impiegati nella realizzazione di materiali ad uso militare.

La Russia ha sicuramente attivato l’economia di guerra, tanto che i relativi impianti non si fermano mai, non chiudono mai, e si produce giorno e notte, come ai tempi dell’assedio di Stalingrado tra il 1942 ed il 1943.

Ma poiché le armi che l’Occidente invia in Ucraina sono state finora pescate dagli arsenali esistenti (a partite dagli armamenti ex Urss in dotazione ai Paesi dell’Est Europa), la coperta comincia ad essere corta, e diversi Stati  hanno spiegato di non essere più in grado di fornire carri e altri armamenti a Kiev perché altrimenti rimarrebbero senza ai fini della propria difesa.

Capite bene che siamo di fronte ad un paradosso: nel senso che Kiev chiede sempre più armamenti, noi occidentali ci siamo impegnati a fornirli, ma in realtà non abbiamo la capacità produttiva, perché dopo un anno di guerra stiamo arrivando a raschiare il fondo del barile.

E per quanto tutte le industrie belliche del mondo stiano adeguandosi alle richieste degli Stati, aumentando la produzione (comprese quelle iraniane e nord coreane, e forse cinesi, per la parte russa), non è che produrre più armi moderne sia come produrre più bottoni.   

La produzione di armamenti richiede tempi abbastanza lunghi, e per fare un solo esempio in questo momento relativamente ai proiettili di grosso calibro i tempi di consegna sono passati da 12 a 28 mesi.

Capite bene perché Stoltenberg abbia lanciato l’allarme.

Perché sa bene che, come prevedono sia gli osservatori che gli stessi ucraini che sono sul campo, incombe l’offensiva di primavera della Russia, che si prevede comporterà un’ondata massiccia di truppe appena mobilitate, un livello di potenza aerea non ancora dispiegato da Mosca,  e soprattutto il lancio quotidiano di tanti proiettili di artiglieria quanti ne produce l’Europa in un mese.

Se così sarà, non è facile prevedere come si farà fronte alle esigenze delle forze armate ucraine.

Non mi dilungo sui costi degli approvvigionamenti per una guerra che a questo punto rischia di durare anni e anni, ma credo abbiate capito che questo in realtà non sembra un problema, in quanto i soldi per le armi, magari mugugnando, gli Stati li trovano sempre. 

In generale mi sembra evidente che la guerra scatenata da Putin ha palesato un’impreparazione di fondo del comparto produttivo bellico occidentale ad un tipo di conflitto che segna un ritorno alle tattiche di “guerra di terra” del XX secolo, e ciò obbligherà i Governi ed i vertici militari a riconsiderare  e a riorganizzare in tal senso i propri apparati industriali.

E questo comporterà un diverso approccio, ed un  crescente impegno finanziario, che dureranno nel tempo, perché è del tutto  evidente che se si vuole far fronte all’accresciuta necessità di armamenti, le industrie della difesa si adegueranno solo a fronte di corposi contratti a lungo termine, inizialmente per lo sforzo bellico in corso, ma con l’impegno da parte dei Governi europei di continuare a comprare anche quando la pace arriverà in Ucraina.

Si tratta in definitiva di scenari inediti, forse inimmaginabili fino al 24 febbraio dell’anno scorso, ma che inevitabilmente finiranno per condizionare le politiche e le economie degli Stati per lunghi anni a venire.

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