27 Maggio 2024 - 9.37

Quei tifosi imbecilli del ciclismo

Umberto Baldo

Ieri, con una passerella nella Capitale, è finito il Giro d’Italia, vinto da quell’ “extra-terrestre”  che risponde al nome di Tadej Pogacar.

Mi piace il ciclismo, mi piace tanto, ed i mesi delle grandi corse a tappe, prima il Giro, dopo Il Tour de France, per finire con la Vuelta a Espana per me hanno il sapore di pomeriggi passati davanti al Televisore, per seguire le imprese di questi ragazzi che, almeno ai miei occhi, fanno miracoli sopra le loro biciclette.

Il ciclismo è uno “sport del popolo”, che a mio avviso vuol dire qualcosa di più di “popolare” (popolari sono molti altri sport, calcio in testa), perché bene o male non c’è persona che non abbia una bicicletta, e non c’è nessuno che pedalando da bambino non abbia sognato di essere uno dei “grandi” di questa disciplina.

Ha inoltre un’altra caratteristica che lo rende particolare; è ancora l’unico sport che al momento non richiede il pagamento di un biglietto per assistere alle gare dal vivo.

Questo è il valore aggiunto che lo rende davvero speciale, la grande partecipazione della gente comune; basta armarsi di pazienza, sopportare la calura o il freddo o la pioggia sul bordo di una strada, ed il gioco è fatto. 

Questo spiega perché quando passa una corsa riservata ai professionisti vediamo  una marea di gente che affolla le strade, le rende colorate, creando un’atmosfera commovente e spettacolare.

Questa, in poche parole, è la “magia del ciclismo”.

Una magia, come accennato, fatta anche del colore delle “divise” degli spettatori (spesso addobbati di tutto punto come i professionisti), e, perché no, anche di qualche cartello, come quello che ho visto sabato esibito da un tifoso sulle strade del Monte Grappa che diceva: “Più bei de Tadej ghe xe solo i schei”.

Il ciclismo è cambiato negli ultimi anni, e non parlo delle biciclette e dei materiali “spaziali”; parlo di educazione.

Io lo ricordo per averlo visto che un tempo i tifosi del ciclismo facevano tenerezza. Se ne stavano ore e ore in attesa del gruppo o del campione solo al comando, e poi, nel momento del passaggio, eccoli ad acclamare, applaudire, sventolare bandierine. 

Ricordo anche che una volta le maestre, quando passava il Giro, ci portavano le scolaresche, e i bambini se ne stavano giudiziosi al bordo della strada.

Certo anche allora c’era qualche scalmanato, ma raramente si vedeva quello che succede ormai abitualmente nei punti più spettacolari, e più critici, di una tappa.

Non intendo assolutamente generalizzare; la maggior parte degli uomini, delle donne e dei bambini che abbiamo visto nelle scorse settimane, quando la carovana dei ciclisti attraversava città e paesi, erano appassionati ma disciplinati, ligi a bordo strada ad applaudire i propri beniamini e a incoraggiarli.

Ma ci sono purtroppo quelli che io definisco “gli imbecilli del ciclismo”.

Non ti puoi sbagliare.

Li riconosci a colpo d’occhio; in genere vestiti con mise improbabili come si usa a carnevale, spesso mezzi nudi, esagitati mentre sventolano una bandiera, e talvolta (visto sempre nella tappa di sabato) intenti a usare fumogeni, o  a piazzarsi in mezzo alla strada.

L’arma principale è lo smartphone, per immortalare il campione nel momento del massimo sforzo, spesso tentando di farsi un selfie.

Già perché questi idioti non si posizionano certo in pianura, dove i corridori sfrecciano a velocità elevata.

No, il loro habitat di elezione sono le strade di montagna, sono le salite, meglio se ai limiti dell’umano, dove fanno sfoggio della loro immensa cretineria correndo per decine di metri pericolosamente a fianco dei ciclisti, urlando loro in faccia come ossessi, e talvolta anche cercando il contatto fisico (la pacca sulla spalla). 

Io credo che tutto questo sia dovuto per buona parte proprio agli smartphone.

Perché nell’era dell’immagine, abbiamo il trionfo dell’imbecille, una persona cui in verità non interessa l’impresa sportiva cui sta assistendo, cui non  interessano nemmeno le condizioni fisiche e psicologiche del campione per il quale dice di fare il tifo. 

Per questo “tifoso” l’unica cosa che conta veramente è farsi inquadrare dalle telecamere oppure, grazie appunto al telefonino, scattare la foto o il selfie memorabile da inoltrare subito agli amici o postare sui social.

E’ lo stesso fenomeno, se ci pensate bene, dei turisti “usa e getta”, quelli cui non interessa entrare in Basilica di San Marco o palazzo Ducale per conoscere la storia di Venezia, bensì solo il selfie davanti al monumento.

Diversamente non capisco cosa ci facesse ieri un “tifoso” in mezzo alla strada che porta alla vetta del Grappa con una volpe impagliata in mano. 

E’ il frutto della nuova mentalità che si sta imponendo (o che forse si è già imposta) secondo la quale non è importante il luogo in cui mi trovo, o l’avvenimento in corso, ma la mia faccia sorridente, magari con un sorriso da fesso, in primissimo piano.

Ecco che lo scollinamento, la fine della salita, non è più importante in sé, ma è solo una cornice, uno sfondo, l’occasione per il mio ego di fare sfoggio di sé.

E, ripeto, l’apoteosi di questi stupidi si concretizza sulle strade di montagna, dove questi pazzi riducono lo spazio a disposizione dei corridori ad uno stretto budello, costringendoli a manovre impossibili per restare in equilibrio per non cadere, e non travolgere le persone. 

E così il povero ciclista, impegnato nel momento di sforzo estremo, quando deve dare tutto, viene inevitabilmente disturbato,  distratto e messo in difficoltà da questo muro umano che gli si apre e si chiude davanti alle ruote. 

Badate che non ne faccio solo una questione di malcostume e di poca sportività; perché si tratta anche di un problema di sicurezza.

Immagino ricorderete quella donna che il 26 giugno 2021 durante la prima tappa del Tour de France, a circa 45 chilometri dal traguardo, sulla collina di Saint-Rivoal nella città di Saint-Cadou, espose un grande cartello di saluti alla sua famiglia che venne urtato da Tony Martin, che cadde trascinando con sé circa 80 corridori, alcuni dei quali furono costretti ad abbandonare subito la corsa, tra cui lo spagnolo Marc Soler, che si ruppe entrambe le braccia.

O quel Tour de France del  2018 quando Vincenzo Nibali inciampò nella tracolla di una macchina fotografica di un tifoso e si infortunò gravemente, così da dover abbandonare la Grande Boucle.

Mi rendo conto che invocare più sicurezza da parte degli Organizzatori non ha senso, perché per come è fatto il ciclismo su strada, con tappe di  centinaia di chilometri, con salite infinite, non è neppure immaginabile che qualcuno possa controllare, e se del caso punire, le gesta di questi esagitati, che non si rendono neppure conto di non essere per nulla degli appassionati di ciclismo, perché con la loro imbecillità mettono a rischio quei campioni che ci regalano grandi emozioni.

Come dicevo all’inizio il Giro è finito ieri.

Fra due mesi inizierà il Tour, e sono certo che purtroppo ci toccherà ancora vedere quel coglione vestito da “diavolo” che rincorre un ciclista.

Sono scene che mi fanno pensare che è come se sfogliassimo un trattato sul fallimento dell’educazione in questi nostri tempi.

Umberto Baldo

PS: a mio avviso il premio “idiota” del giorno”, e parlo sempre del Tappone del Grappa, spetta di diritto ex aequo a due tifosi: uno che rincorreva i ciclisti con un mano una motosega, ed poi un attempato signore, con tanto di chioma bianca, che ha pensato bene di “toccare” Pogacar mentre scalava il Grappa, prendendosi ovviamente le rimostranze del campione. 

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