23 Luglio 2020 - 9.27

Quel pollice alzato che non si vede più

Da molti anni dal panorama, meglio dai bordi delle nostre strade, sono spariti i ragazzi che chiedevano un passaggio agli automobilisti in transito; gli autostoppisti.C’era una volta l’autostop…, sembra quasi l’inizio di una favola da raccontare ai ragazzi di oggi, che quasi sicuramente non sanno neppure di cosa si tratti.Eppure quel dito alzato ha rappresentato un linguaggio universale degli ultimi decenni del secondo millennio.  Bastava esporre un pollice e aspettare che qualche automobilista accostasse, per condividere o l’intero itinerario, o almeno qualche chilometro. Io credo si possa tranquillamente affermare che negli anni sessanta e settanta del secolo scorso l’autostop fosse per una parte del mondo giovanile quasi una filosofia di vita.  Nel senso che quando si scriverà la storia dei “viaggiatori della fine del secondo millennio” si parlerà di modi diversi ed anticonvenzionali di vivere il viaggio, inteso anche come esperienza di vita, e non solo come spostamento fisico da un luogo all’altro.Assumendo nel tempo un valore quasi iconico, come le foto della sexy girl o del bel ragazzone appostati sul ciglio di una strada deserta dell’Arizona.Certo erano altri tempi, forse un po’ più spensierati, nei quali le giovani generazioni sentivano l’entusiasmo per quel modo di viaggiare, sicuramente anche sulla scia del “vento hippy” che già soffiava negli Stati Uniti.Era un mondo diverso, in cui le auto erano più spartane, meno tecnologiche, in cui le cinture di sicurezza non erano previste, in cui sulle strade italiane dominavano le Fiat, le Opel Kadett, le Ford, i Maggiolini, le Alfa Romeo. Ma era un mondo in cui per mettersi in viaggio ai ragazzi di allora bastava uno zaino ed il pollice da alzare. Un must della cultura “beat” imperante a quei tempi, un mito delle “summer of love”, ormai tramandato romanticamente nelle pagine di “On the road” di Jack Kerouac.Ma al di là del mito, l’autostop quando io ero un adolescente, e non pensiate ai tempi di Giulio Cesare, era una prassi molto comune.Ai bordi delle nostre strade non c’erano solo i ragazzoni del nord Europa con i capelli lunghi e la pelle rossiccia scottata dal sole, con le loro compagne con le gonne a fiori e lo zaino sulle spalle.C’eravamo anche noi italiani.Certo non era una pratica molto comune fra gli adulti, ma per noi ragazzi di allora era normale in certe situazioni alzare il pollice a chiedere un passaggio.E non crediate che la cosa fosse ben vista anche allora dalle mamme, sempre pronte a ricordare ai figli il pericolo di trovare qualche autista malintenzionato, o di viaggiare assieme a qualche spericolato del volante, con tutti i rischi connessi.Ricordo che la mia mamma mi diceva in più che fare l’autostop era una cosa da “singani”, che per chi ha poca dimestichezza con la lingua veneta si traduce con “zingari”.Sicuramente la mia genitrice era condizionata dal fatto che effettivamente molti autostoppisti, dopo giorni e giorni sulla strada, non erano proprio l’immagine della pulizia, e qualche afrore sgradevole lo si percepiva eccome quando gli si dava un passaggio.Ma, come dicevo, chiedere un “passaggio” era soprattutto una grande comodità.Per fare un solo esempio, quando frequentavo il liceo a Padova, abitando in un paese della provincia, a scuola si andava in treno o in autobus.E tante volte, o perchè si perdeva la corriera, o semplicemente per arrivare a casa prima, si faceva una scarpinata fino al Bassanello, dove inizia la mitica Statale 16, per fare l’autostop.E francamente non si restava mai a piedi.  Sarà perchè gli automobilisti ci vedevano vestiti “da bravi studenti”, con le borse dei libri, fatto sta che a volte bastava solo accennare ad alzare il dito perchè una macchina accostasse e ci facesse salire.  Quando si era in molti a chiedere un passaggio veniva a determinarsi una sorta di sfida, in cui vinceva chi riusciva a fermare una macchina per primo.  Inutile dire che il tutto era molto più semplice se assieme a te c’era una ragazza, e non credo per considerazioni di carattere erotico, ma semplicemente perchè il gentil sesso ispirava maggiore sicurezza. E sovente quella mezz’ora di viaggio era anche l’occasione per uno scambio di idee con il “benefattore al volante”, spesso un padre di famiglia che forse vedeva in noi i suoi figli in un’altra strada con il pollice al vento.Ma io credo che la facilità con cui si facevano salire in macchina degli sconosciuti fosse anche dovuta al fatto che gli italiani erano diversi.C’era sicuramente meno diffidenza nei confronti degli altri, maggiore disponibilità, meno paure di trovare qualcuno che magari ti chiedeva un passaggio e poi ti rapinava.Era una società più aperta, più benevola, più comprensiva, ma è anche vero che con quello che riportano le cronache oggi giorno non c’è da meravigliarsi se la maggior parte dei commenti sull’autostop sia ora improntata a “ma di questi tempi, con tutta la brutta gente che c’è in giro, come fai a fidarti?”C’è poco da fare, oggi questo modo di viaggiare è quasi scomparso, e solo in estate capita di trovare qualche “reduce” temerario di quegli anni che, zaino in spalla e vento in faccia, si ostina caparbiamente ad alzare il pollice, magari esponendo un cartello con l’indicazione della destinazione.Ma si tratta della classica “rondine”, che come sappiamo non fa primavera.E’ chiaro che quella stagione appartiene ormai al passato, ed il desiderio di esplorare ha lasciato il posto alla diffidenza ed alla paura, che consigliano di “non aprire quella portiera”.A maggior ragione in questi tempi di coronavirus la vedo dura che uno corra il rischio di far salire un estraneo potenzialmente infetto. Ma per il tramonto dell’autostop sono state determinanti anche le nuove tecnologie, con le loro applicazioni.Il pollice ora non si usa più per fermare una macchina, ma per smanettare sullo smartphone alla ricerca  ad esempio di Blablacar, una comunità virtuale di oltre 25 milioni di utenti diffusa in 22 Paesi, che consente di cercare qualcuno con cui condividere un viaggio, o parte di esso. Si tratta del cosiddetto “car pooling”, che però non è gratuito, in quanto il passeggero contribuisce al pagamento del carburante e dei pedaggi autostradali.Indubbiamente il car pooling non ha il fascino dell’avventura dell’autostop.Si tratta di un viaggio programmato, che inizia su Google Maps per decidere il percorso e le destinazioni, e prosegue mettendosi in contatto con coloro che condivideranno l’auto, ripartendo i costi tra le persone a bordo, tutte assicurate.Per di più ci sono poi anche i voli low cost, che fino alla crisi del covid-19 consentivano ai giovani di volare anche con 20 o 30 euro.  Solo di birra e panini con l’autostop si spenderebbe sicuramente di più.  Tutto ciò però non ha nulla a che vedere con il magico mondo dell’ “On the road”, che richiedeva anche un certo approccio mentale, perchè a volte si poteva aspettare qualche ora prima di trovare un passaggio, sotto un sole implacabile o magari sotto una pioggia battente.Gli eroi dell’imprevisto e dall’avventura si sono  così allineati ai riti di Internet,  e ad un nostalgico di quel mondo fatto di jeans lisi, zaini e sacco a pelo, non può non venire in mente il verso della canzone di Antonello Venditti “O sei finito in banca pure tu?”. Resta però tanta nostalgia di quegli anni e di quel mondo, di quei viaggi e di quelle vacanze, in cui l’importante non era la destinazione ma il viaggio. Nostalgia di quella generazione di ragazzi  degli anni  sessanta/settanta che voleva la fantasia al potere, che sognava un mondo migliore, che preferiva far l’amore piuttosto che la guerra, che si definiva “figli dei fiori”, che vestiva con i pantaloni a zampa di elefante e con le prime minigonne, che portava i capelli imprescindibilmente lunghi, che ascoltava la musica psichedelica dei Pink Floyd, che diede vita a Woodstock al week end più famoso della storia della musica rock, che si muoveva con qualche straccio in uno zaino e con pochi soldi in tasca.  Per i ragazzi di allora il pollice teso sulla strada era il simbolo della libertà senza regole, e per girare il mondo bastavano tanta fiducia ed un po’ di pazienza. Forse sarà il rimpianto degli anni verdi, ma non sono del tutto sicuro che sia meglio il mondo di oggi.

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