4 Luglio 2024 - 9.42

Quella sinistra “Bella ciao” che incensa Mélenchon e ignora Starmer

Umberto Baldo

Uno dei “vezzi” della sinistra italica è quello di essere alla costante ricerca di modelli stranieri da emulare, che il più delle volte si dimostrano simboli passeggeri tipo “usa e getta”.

Un grande giornalista, sulla sua rubrica quotidiana, ieri ricordava gli entusiasmi dei nostri “gauchistes” per le vittorie di leader di forze progressiste in Paesi che spesso nulla avevano a che spartire con l’Italia.

E così di volta in volta abbiamo letto di  Joe Biden  visto come “un modello per la sinistra italiana”, di Barack Obama “una lezione per la sinistra italiana”, di Bill Clinton “un ponte per la sinistra italiana”, di Lula “un fatto di straordinaria portata per la sinistra italiana”, di José Zapatero “un punto di svolta per la sinistra italiana”, di François Hollande “l’apertura di una fase nuova per la sinistra italiana”, di Tony Blair, “un esempio per la sinistra italiana”, di Alexis Tsipras “un indirizzo per riaprire il cantiere della sinistra italiana”, persino di Hugo Chavez “la grande occasione per la sinistra italiana”.

Nel tempo ci sono caduti un po’ tutti i Capi della sinistra italica in questo giochino di “incensare” i laeder progressisti che vincono altrove.

E sì che dovrebbe essere ancora ben viva la memoria di quel 2006, quando l’Unione, guidata da Romani Prodi, riuscì nell’intento di  raccogliere partiti e partitini, gruppi e gruppetti, alberi e cespugli, al fine di battere il “grande nemico della Democrazia” Silvio Berlusconi.

L’Unione nacque in conseguenza della legge elettorale che costringeva a stringere coalizioni, e fu la naturale evoluzione dell’Ulivo, dato che bisognava trovare spazio anche per Rifondazione Comunista e per i Comunisti Italiani.

E così si diede vita alla grande ammucchiata “anti Cavaliere”, che spaziava da Mastella a Dini, fino ad arrivare a Franco Turigliatto.

Doveva essere una portaerei, ma alla fine vinse con il 49,8% dei voti, contro, il 49,7% della destra; e finì con il famoso voto contrario in Parlamento di Rossi e Turigliatto, con le dimissioni di Prodi, e la successiva vittoria elettorale di Berlusconi. 

Guardando le cronache di questi giorni, mi sembra che la lezione di allora non sia servita, e dopo il bell’esame di maturità alle Europee, a Firenze, Bari e Perugia, Elly Schlein è tornata alla sua ossessione del “campo largo”, trovando la sua nuova ispirazione nel “voler fare come in Francia”.

Mostrando in questo modo,  mi spiace dirlo, l’incapacità di leggere la politica.

L’incapacità, per essere più chiaro, di capire che il “Fronte Popolare” che va da Macron a Mélenchon non rappresenta un progetto politico, bensì la conseguenza del dramma politico più acuto che la Francia stia vivendo da settant’anni in qua.

In altre parole il Nouveau Front Populaire non è l’apoteosi della sinistra e dei progressisti, ma un mero agglomerato improvvisato, ed assai eterogeneo, reso necessario dal fantasma dell’estrema destra della Le Pen: non è una festa, non è un progetto politico, è l’extrema ratio a disposizione.

Per una sinistra matura non può essere un modello quello francese, che tiene insieme con lo sputo liberali, centristi, e gente con posizioni a dir poco equivoche, a partire proprio da Jean-Luc Mélenchon, che ha un programma che dire demagogico è poco (pensione a sessant’anni, parziale disarmo dell’esercito, antisemitismo ecc.), buono per qualche assemblea di studenti universitari, qualche comizio col megafono in qualche centro sociale, o in raduni radical chic.

Ecco perché, ma è una mia idea che non  voglio certo imporre a nessuno, io giudico “fuori dal mondo” l’ammucchiata sul palco dell’Anpi a Bologna, con Elly Schlein, Giuseppe Conte in evidente crisi di identità all’interno dei 5Stelle, Nicola Fratoianni ed Angelo Bonelli  reduci dalla vittoria maturata con la candidatura di Ilaria Salis (sperando non si trasformi per loro nella prossima Somahoro), Riccardo Magi di Più Europa, e financo Maurizio Acerbo di Rifondazione Comunista (un Partito fuori dal tempo già trent’anni fa).

E se il punto di incontro programmatico comune consiste nell’aver cantato “Bella Ciao” tutti insieme, in piena sintonia “antifascista” mi sento di dire loro “tanti auguri”.

Ma voglio portare la vostra attenzione su un altro aspetto. 

Non è che la sinistra nel suo complesso stia vivendo un periodo d’oro in Europa, e dovrebbe quindi guardare con interesse, come ad un modello, il Partito Laburista inglese che, stando ai sondaggi,  dopo 14 anni, proprio oggi dovrebbe riconquistare il Governo dell’Inghilterra, relegando i Tories all’opposizione.

Se non che il neo-frontismo all’italiana della sinistra Schleiniana campolarghista, mentre si entusiasma per la possibile rimonta del baraccone antiriformista del Nouveau Front Populaire di Mélenchon, sembra invece meno “ispirata” dal Labour Party di Keir Starmer.

Ed è evidente il motivo.  Perché Starmer ha rotto con la retorica anticapitalista e del welfarismo parassitario, con un larvato antisemitismo, e con il sogno di fare della sinistra britannica una trincea della resistenza anti-occidentale e anti-atlantica; in altre parole Starmer ha rotto con la piattaforma del predecessore Jeremy Corbyn, che aveva inanellato una serie infinita di disastri elettorali. 

Meno “social”, in termini di economia, del Psoe di Pedro Sanchez (altro riformista), ma altrettanto rigoroso sulle politiche migratorie (“la sinistra che non si occupa di proteggere i confini perde le elezioni”), il Labour di Starmer è tutto  fuorché ammucchiata, sinistra radicale, logica oppositiva. 

Anzi è rifiuto della medesima e della mediazione interna a tutti i costi: Corbyn è stato letteralmente cacciato perché le sue teorie cospirazioniste ed antisemite erano in aperto contrasto col nuovo corso del Partito. 

Oltre tutto Starmer sulla guerra in Ucraina, su Israele e sulla Russia, dice cose che la nostra gauche considera di destra e belliciste; ed ecco perché i nostri “campolarghisti” lo percepiscono non come un riformatore pragmatico, ma di fatto come un erede della tradizione liberal-laburista alla Tony Blair.

Guardate, in questo guazzabuglio, in cui la maggioranza dei cittadini non si rende conto che fra qualche mese potrebbero crollare tutte le attuali certezze, io capisco che a sinistra si  possa sperare che l’ammucchiata per la République sbarri la strada al successo del giovane figurante di Marine Le Pen,  risparmi così alla Francia e all’Europa lo spettacolo di Jordan Bardella a Matignon, e consegni a Emmanuel Macron un potere di interdizione sufficiente a contenere la deriva cui porterebbe la vittoria del   Rassemblement National.

Ma almeno quella stessa sinistra non cerchi di farci credere che Jean Luc Mélenchon  sia il Léon Blum del 2024.

Umberto Baldo

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