12 Febbraio 2024 - 9.45

Sanremo 2024: il riscatto dei Jalisse

Umberto Baldo

Può darsi che qualcuno di voi ricordi “Sanremo visto da uno che non l’ha visto”, il pezzo con cui il 13 febbraio 2023 commentai (meglio non commentai) la kermesse canora “dea Nazzzziiiiioooone”.

Ma se torni ancora sull’argomento, allora quest’anno lo hai visto?  Starete pensando.

Mi dispiace deludervi. 

No, non l’ho visto neanche in quest’anno del Signore 2024, peraltro bisestile, preferendo dedicarmi ad altre cose.

E quindi non chiedetemi se a mio avviso la canzone risultata vincitrice, eseguita da una figlia d’arte come Angelina Mango,  fosse la migliore, semplicemente perché non lo so.

E, mi ripeto, ho continuato, come avviene ormai da decenni, a non seguire Sanremo non per snobismo, non per un’inesistente spocchia cultural-intellettuale, ma semplicemente perché non mi piace il prodotto, non mi piace il clima forzatamente festoso, e tutto l’ambaradan mediatico che accompagna questo appuntamento canoro.

Ma detto questo, non ho certo né la preparazione musicale, né tantomeno l’autorità morale,  per esprimere giudizi definitivi sul Festival, che resta senza ombra di dubbio la trasmissione televisiva di gran lunga più seguita dagli italiani (un po’ come succede in Usa per il Super Bowl).

E come in politica alla fine ha ragione chi prende più voti, così anche nel mondo dei media ha ragione la trasmissione che incassa uno share quasi dell’ 80% (circa 14milioni di spettatori), per avere il quale i nostri Demostene venderebbero la madre. 

Ma poiché non mi piacciono le bugie, devo dirvi che sabato mattina, facendo colazione, ho ascoltato in streaming dal mio Mac alcune canzoni della quarta serata dedicata alle “cover” e ai “duetti”, apprezzando le interpretazioni de il Volo (Who wants to live forever), di Fiorella Mannoia, di Riccardo Cocciante, di Roberto Vecchioni, del cantante dei Santi Francesi (Hallelujah). 

Capisco che i millenials possano pensare che i miei sono gusti da vecchio troglodita, ma cosa volete io un cantante lo giudico ancora dalle capacità vocali, e non da quelle “recitative”, come sembra andare di moda negli ultimi anni (certi interpreti a mio giudizio più che cantare sembrano recitare una poesiola).

Alla fine il mio Sanremo così sarebbe finito, se non che, navigando in Rete ho visto che, sempre nella serata delle “cover”, si è messa fine a quella che io ho sempre giudicato una inspiegabile ingiustizia, se non addirittura una maledizione.

Mi riferisco ad un duo composto dal romano Fabio Ricci e dalla veneta di Oderzo Alessandra Drusian, compagni anche nella vita; i Jalisse.

Bisogna riandare indietro al 1997, quando due giovani cantanti (all’epoca trentenni) inaspettatamente vinsero il Festival con la canzone “Fiumi di parole”.

Erano anni che circolavano veleni e chiacchiere circa sospetti di malefatte ed intrighi attorno alle precedenti edizioni del Festival (se ne occupò anche Striscia la Notizia), essendo la vittoria nella kermesse canora un’occasione ghiotta per ogni Casa discografica non solo riguardo la visibilità (per l’intera scuderia), ma anche per i successivi introiti derivanti da concerti e ospitate.

Nel 1997 la vittoria dei Jalisse,approdati a Sanremo da esordienti (per giunta indipendenti), fu decretata attraverso i dati della Doxa che riportarono voti unanimi delle giurie popolari del nord, centro e sud, in rappresentanza del “popolo sovrano”.

I favoriti erano altri, eppure vinsero loro, i Jalisse; una vittoria trasparente con un brano orecchiabile che era entrato prepotentemente nella testa di tutti, e che quell’anno avrebbe anche rappresentato l’Italia all’Euro Festival.

Evidentemente alle Majors della musica questa vittoria di due outsider (due cani sciolti si potrebbe dire) non piacque affatto.  

Per cui il loro album venne distribuito con ritardo negli store, e inoltre si ventilò che “Fiumi di parole” derivasse dal plagio di un brano dei Roxette i quali però, non riscontrandone gli estremi, non agirono mai legalmente contro il gruppo italiano.

L’obiettivo era chiaro: si doveva fare di tutto per ostacolare la possibile ascesa dei Jalisse, di tutto per farli scordare in fretta, come in fretta erano saliti alla ribalta. 

Nella logica ”industriale “ dei discografici non si poteva permettere che questa vittoria creasse un “precedente” e quindi, l’ordine degli addetti ai lavori fu di far dimenticare i Jalisse al pubblico che li aveva votati in massa a Sanremo, pubblico che venne convinto che fossero stati delle meteore, dal momento che sparirono dal firmamento canoro in un battibaleno. 

Ma era tutto preordinato, perché il Duo fu deliberatamente estromesso dai canali mediatici; quindi niente televisioni, niente giornali, niente radio e molte le maldicenze sussurrate dei giornalisti durante gli anni.

Un meccanismo ed una prassi che non sono stati certo inventati dai Grandi discografici, ma che erano ben noti già ai tempi degli antichi romani; solo che loro la chiamavamo “damnatio memoriae”.

Guarda caso, da quella inaspettata vittoria del ’97, per 27 anni i Jalisse hanno chiesto di tornare al Festival, presentando ogni anno  una canzone diversa.

E per 27 anni sono stati sempre respinti, cosa che non hanno mancato di lamentare sui social.

In questi anni non si sono lasciati andare allo sconforto; hanno continuato la loro attività, ad esempio portando avanti diversi progetti musicali con i bambini delle scuole, di beneficenza (si sono attivati particolarmente in occasione del terremoto che ha colpito L’Aquila nel 2009), e  continuando a scrivere e cantare altre canzoni.

Da segnalare il loro brano “Linguaggio Universale”, del 2007,  che si ispirava per esempio nientemeno che ad un saggio scritto da Rita Levi Montalcini, e la canzone  “E Se Torna La Voce”, del 2013, risultato di un’attività di laboratorio svolta con i detenuti del carcere di San Vittore.

Nel 2020, dopo la loro ennesima esclusione, hanno detto: “Niente da fare, non riusciamo ad azzeccare una canzone che possa interessare al Festival!” 

Saranno i testi poco validi?  Le musiche brutte? La voce? Il nome Jalisse? O cosa? Chi ce lo dice per favore?

Uno sfogo sconsolato, comprensibile dopo anni di ostracismo, che finora non aveva portato alcun risultato. 

Finalmente nella quarta serata del Festival, in tarda serata purtroppo (forse anche questo un segnale) Fiorello è riuscito a rompere l’incantesimo all’incontrario, portando i Jalisse nuovamente sul palco del Teatro Ariston, dove hanno potuto cantare ancora una volta la loro “Fiumi di parole”, però in qualità di ospiti.

Ho visto e rivisto l’esibizione dei Jalisse su quel palco “fatale” dopo 27 anni, decisamente invecchiati, un po’ commossi, ma ancora brillanti.

Le voci sono ancora quelle, limpide, forti, decise, intonate (splendida quella della Drusian), come se 27 anni non fossero mai passati. 

Credo che Fiorello vada ringraziato per il coraggio di questa iniziativa, che più che il sapore di un ritorno ha quello di un “risarcimento” e di un “riscatto”. 

Auguri Jalisse.

Umberto Baldo

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