Scuole e Covid-19: la grande diatriba del certificato medico sì o no?
Che in Francia, Spagna, Inghilterra sia in atto una crescita esponenziale dei contagi da Covid-19 è un dato di fatto, tanto che in quei Paesi si parla apertamente di seconda ondata, e sono già stati decisi nuovi lockdown che interessano milioni di cittadini. In Italia le cose al momento sembrerebbero, il condizionale è d’obbligo, andare un po’ meglio, nel senso che le infezioni sono sì in aumento da almeno sette settimane, e con un incremento dell’età media dei positivi, ma le strutture ospedaliere non stanno subendo, sempre per ora, l’assalto della primavera scorsa.
Ciò non vuol dire che le cose vadano bene, che tutto fili per il verso giusto, e che non si debbano continuare a seguire scrupolosamente le norme anti contagio.
Le criticità, era facilmente prevedibile, sono legate alla ripresa dell’anno scolastico. E abbiamo già cominciato a vedere i primi effetti anche nel nostro Veneto, con casi di positività di ragazzi o insegnanti, e conseguenti chiusure.
Intendiamoci, non si potevano certo tenere le scuole chiuse sine die, ma a pochi giorni dalla ripresa si stanno manifestando problematiche legate soprattutto alla gestione della morbilità dei ragazzi, con particolare riguardo alle certificazioni per la loro riammissione a scuola dopo un’assenza per malattia.
Il sunto del problema sta in una semplice domanda: Certificato medico si, o no?
Nel documento sulla gestione dei focolai di Covid nelle scuole, le indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità sembrano chiare: “Il soggetto rimarrà a casa fino a guarigione clinica seguendo le indicazioni del pediatra/medico di medicina generale, che redigerà una attestazione che il bambino/studente può rientrare scuola poiché è stato seguito il percorso diagnostico-terapeutico e di prevenzione per Covid ( quindi con l’effettuazione del tampone), e come disposto da documenti nazionali e regionali”.
Ed è proprio quell’ultima parola, “regionale”, che sta dando origine ad una grande confusione. Perchè ogni Regione gode di un certo grado di autonomia in tema di sanità, col risultato che sulla certificazione le Regioni si stanno muovendo in ordine sparso, in una giungla di burocrazia di difficile interpretazione, che alla fine penalizza i cittadini.
Ma anche la parola “attestazione” qualche problema lo crea, e lo vedremo oltre.
Ovviamente il problema si pone in qualunque caso di assenza per malattia, in quanto i presidi in questa fase sono, giustamente, particolarmente allertati, e per il timore di incorrere in qualche responsabilità, sono orientati a pretendere comunque un certificato di avvenuta guarigione per riammettere i ragazzi in classe, e per questo chiedono con fermezza la reintroduzione dell’obbligo di certificazione a livello nazionale, almeno sopra i tre giorni di assenza.
Richiesta rigettata dai pediatri perchè, a loro avviso, sarebbe inutile, e pericoloso, affollare gli studi medici per ottenere un documento che non garantisce nulla, e che servirebbe solo a tranquillizzare i presidi.
Ma al riguardo i problemi veri si pongono ovviamente quando l’assenza è dovuta a sospetto Covid-19.
Cosa succede se a scuola c’è un caso di sospetta positività di uno studente?
Le linee guida del Ministero prescrivono che, se il Responsabile sanitario lo ritiene opportuno, avvia il pargolo al punto Covid per essere sottoposto a tampone. Il medico può anche decidere quali contatti stretti del ragazzo debbano essere eventualmente sottoposti al test. Per gli altri, se asintomatici, scatta l’isolamento fiduciario, e solo se viene confermata la positività del caso sospetto, si procede con il tampone anche per loro.
Questi “contatti”, per l’effetto dei “centri concentrici”, possono essere intere classi con i relativi familiari, o al limite l’intero plesso scolastico.
Non ci vuole certo un genio per capire che, visto che siamo alle soglie della stagione fredda, e della fase dell’influenza normale, c’è il rischio più che concreto (io addirittura parlerei di certezza) che migliaia e migliaia di cittadini siano costretti a restare in isolamento pur essendo in perfetta salute e non avendo contratto il virus.
Di fatto “vite sospese” in attesa del risultato di un tampone, il cui esito, vista la presumibile impennata di richieste, potrebbe richiedere tempi lunghi.
Con il rischio concreto che salti il sistema dei tamponi. Perchè se per consentire ai figli di essere riammessi in classe ogni volta la famiglia deve rivolgersi al pediatra, che per evitare qualsiasi responsabilità quasi sicuramente ordinerà il test, saranno inevitabili laboratori pubblici sotto pressione e lunghe attese.
Tornando alle normative, abbiamo visto che per la riammissione in classe l’lSS parla di attestazione. C’è differenza fra attestazione e certificato? Sì, e consiste nel fatto che con l’attestazione il pediatra “attesta” appunto la conclusione di un percorso diagnostico che avviene tramite il tampone, in teoria senza avere visto il ragazzo/a. Il certificato, invece, può essere redatto a seguito di una visita, di una valutazione clinica, quindi solo in presenza.
Gia sulla base di questi ragionamenti vi sarete certamente resi conto che il “Sistema” ha alla fine scaricato tutte le responsabilità sui medici pediatri.
I quali lo hanno ben capito da dove arriva il “cetriolo”, e di conseguenza la vedo difficile che, a fronte di sintomi compatibili con il Covid-19, che sono gli stessi di un forte raffreddore o di un’influenza, un pediatra si assuma la responsabilità di non richiedere il tampone.
E considerato quanto si ammalano i bambini nel periodo autunno/inverno, il rischio concreto è che il numero dei tamponi richiesti diventi esageratamente rilevante, tale probabilmente da mettere il crisi i laboratori.
E se anche il risultato del tampone fosse alla fine “negativo”, per rientrare a scuola serve in ogni caso l’ attestazione (o il certificato?) del pediatra, e così il circolo vizioso continua.
Il problema è che il sistema è già in sofferenza adesso, ed io ho potuto seguire nei giorni scorsi la vera e propria “odissea” di una mia nipote insegnante in Lombardia, bloccata in casa con marito e due figlie perchè una delle due ragazze, avendo febbre e dolori addominali, ha dovuto sottoporsi al tampone. Per avere l’esito dello stesso, necessario anche a lei per poter riprendere il lavoro di insegnante, dopo innumerevoli telefonate ha dovuto alla fine recarsi in Ospedale, facendo il diavolo a quattro, e lo ha ottenuto solo dopo aver minacciato di tornare accompagnata dai carabinieri e dai giornalisti. Va precisato che il problema non era nei tempi dell’effettuazione del test, ma nei bizantinismi della burocrazia, che ha escogitato e messo in piedi un sistema per la consultazione del referto così cervellotico ed arzigogolato da mandare in crisi anche la pediatra.
Non crediate che non mi renda conto che ci troviamo di fronte ad un problema gigantesco, di non facile gestione.
Ma ciò non toglie che non si possano cercare soluzioni in grado di migliorare la funzionalità del sistema.
In primo luogo trovare sinegie fra il settore pubblico e quello privato.
Già adesso quasi tutte le Regioni hanno dato la possibilità ai laboratori privati accreditati di effettuare i tamponi (a pagamento). L’aumento dei punti prelievo dovrebbe garantire alle persone non contagiate di uscire dal girone dantesco dell’isolamento. Certo c’è la questione del costo, ma sono sicuro che moltissimi cittadini preferiscano mettersi le mani in tasca (d’altronde lo fanno già se vogliono una visita medica o un esame in tempi non biblici), piuttosto che rimanere confinati in casa con tutti i famigliari per giorni e giorni, con gravi danni economici in particolare per chi non è un lavoratore dipendente.
Lo so bene che nell’attuale Governo c’è una forte componente statalista ed anti privato, ma a mali estremi estremi rimedi; i laboratori privati accreditati ci sono, basta metterli in condizione di lavorare affiancando e supportando le strutture sanitarie pubbliche.
C’è poi la questione dei cosiddetti “tamponi rapidi”, sull’introduzione massiva degli stessi mi sembra di cogliere qualche “ritardo” da parte del Ministero.
Non è un caso se al riguardo Luca Zaia in una recente intervista ha dichiarato: “Con i test rapidi esito in 5 minuti. Vanno estesi ovunque. Ho parlato mercoledì con il ministro Speranza, gli ho posto la questione del tampone rapido per gli screening in luoghi come le scuole o ovunque servano risposte tempestive».
E ancora “Credo siano da inserire in fretta nei protocolli della sanità pubblica: 5 o 6 minuti e sai se sei positivo, senza laboratorio. Tra l’altro proprio per verificarne l’attendibilità, in Veneto abbiamo fatto molte prove doppie, sia con il tradizionale che con il rapido: risultati affidabilissimi. Non per nulla oggi ci sono 11 case farmaceutiche internazionali che lo propongono, e il prezzo è sceso a 4,5 euro”.
Per chi avesse qualche dubbio, segnalo che questi test rapidi sono già utilizzati nei nostri aeroporti per testare chi proviene da Grecia, Croazia, Malta e Spagna, per cui non si capisce perchè non possano essere usati anche per le scuole, agevolando la vita di medici e famiglie.
Da non trascurare poi un altro aspetto della faccenda Covid-19, che riguarda sempre i cittadini che si trovano, loro malgrado, costretti all’isolamento domiciliare, perchè in quarantena. Assenza da giustificarsi producendo apposito “certificato” di malattia attestante il periodo di quarantena, nel quale il medico dovrà indicare gli estremi del provvedimento emesso dall’operatore di sanità pubblica.
Comunque vada il numero di queste persone costrette a casa crescerà, speriamo non esponenzialmente, nei prossimi mesi.
Il problema è che questi soggetti, spesso genitori di bimbi in attesa di tampone, sono per lo più asintomatici, ma sulla base di una circolare Inps dello scorso giugno “anche se risultassero in buone condizioni di salute, per almeno 14 giorni gli è vietato di esercitare la loro attività lavorativa in smart working perchè considerati in malattia”.
Questa equiparazione alla malattia vale anche per la quarantena cui debbono sottoporsi coloro che rientrano dalle vacanze in certi Paesi a rischio.
Considero questa norma totalmente illogica, soprattutto alla luce del fatto che molte di queste persone in isolamento sarebbero disposte a lavorare da casa.
Io credo che il Governo dovrebbe riconsiderare questo divieto di lavorare imposto dall’alto per tutti, anche perchè molte di queste persone saranno a casa per accudire un figlio eventualmente positivo, con le agevolazioni economiche e previdenziali previste per questi casi dallo Stato.
Cambiare la norma sarebbe inoltre opportuno in quanto oltre al danno causato all’azienda dalla mancanza del lavoratore, c’è da considerare anche l’impatto di questa norma sulle casse dell’Inps.
In definitiva l’Esecutivo dovrebbe a mio avviso valutare la possibilità di fare lavorare in smart working almeno gli asintomatici quando c’è il loro consenso.
A volte si tratta di applicare solo un po’ di buonsenso.