19 Aprile 2024 - 9.21

Senza le correnti nei Partiti non c’è democrazia 

Umberto Baldo

In questi giorni sono sempre più presenti su giornali e media titoli come questo: “Elly Schlein alle prese con la compilazione delle liste”.

Ho scritto Schlein, ma in realtà potevo mettere Salvini, Conte, Meloni, Renzi, Calenda ecc, tanto il risultato non cambiava.

Ovviamente il riferimento è alle liste per le candidature alle prossime elezioni europee dell’’8- 9 giugno.

In altri tempi, quelli che solitamente ormai vengono definiti della Prima o della Seconda Repubblica, i titoli sarebbero stati simili, con la sostanziale differenza che al posto dei nomi dei leader si sarebbe scritto “la Dc, il Pci, il Psi, il Pri, il Pli ecc.”.

Perché allora le liste venivano compilate collegialmente dai vertici dei Partiti, dalle mitiche “Direzioni”, magari dopo nottate di confronto passate con il coltello fra i denti.

Qualcuno, soprattutto fra i più giovani, si starà chiedendo: ma cosa cambia?

Anche allora il Segretario del Partito aveva un ruolo importante, a volte decisivo, nel riempire le caselle della lista con i nomi dei candidati!

Vero, ma con una differenza sia di forma che di sostanza; allora il Segretario era il “Segretario”, e non il “Capo”.

Ed era Segretario in quanto designato e votato da un Congresso, in cui centinaia di delegati dibattevano, discutevano, a volte si accapigliavano, e alla fine decidevano, all’unanimità o a maggioranza, la linea politica del Partito, e “chi” dovesse attuarla. 

Qual’ era l’elemento che rendeva quei Partiti profondamente diversi da quelli attuali?

Piaccia o non piaccia le “correnti”, intorno al ruolo delle quali si è dibattuto per lunghi anni, e che sono state combattute con l’obiettivo di eliminarle.

Quel che resta delle correnti nei Partiti di oggi è solo la pallida ombra di quello che rappresentavano in altri tempi.

Per il semplice motivo che nel post-tangentopoli sono mutate le forme della politica, i moduli organizzativi delle Forze politiche, addirittura i luoghi dell’agire collettivo. 

In altre parole è cambiata l’etica dei Partiti, ed ha preso il sopravvento l’”etica del Capo”, travolgendo così i tradizionali modi di intendere la partecipazione alla vita politica del Paese.

Non voglio darvi l’impressione del vecchio che rimpiange gli “anni che furono” come fossero una sorta di paradiso in terra.

Io ricordo bene che le correnti in certi momenti costituivano un ostacolo alla normale dialettica, e financo alla funzionalità all’interno dei Partiti, e rendevano  a volte ardui i processi decisionali.

Ma nonostante tutto, e prendo come esempio la Democrazia Cristiana (perché il Partito Comunista rispondeva alla logica del “centralismo democratico” e quindi le correnti c’erano, ma erano molto “sfumate”), le storiche correnti rappresentavano pezzi di società, erano profondamente radicate nei territori, erano espressione di una precisa e definita cultura politica – all’interno del composito e variegato arcipelago cattolico del tempo – e, soprattutto, erano interpretate e guidate da una classe dirigente autorevole, qualificata e riconosciuta.

Per fare un solo esempio, quando si parlava di “Morotei” si sapeva che si trattava di persone che culturalmente e politicamente si ispiravano all’On. Aldo Moro, uno che, a parte il martirio finale, è stato per anni un punto di riferimento nel Partito e nel Paese. 

E non meraviglia quindi che quasi ogni leader democristiano fosse anche a capo di una corrente, perché  quegli uomini, oltre a leader politici e culturali, erano al contempo anche statisti e uomini di governo.

In estrema sintesi, le correnti erano attori di primo piano nella vita di un Partito, in quanto strumenti organizzativi di elaborazione politica e culturale.

Tutto ciò è stato spazzato via nella quasi totalità dei Partiti, e dove sono rimaste sono semplicemente gruppi organizzati, che nascono e muoiono con una rapidità impressionante, e che sono funzionali solo alla spartizione del potere e degli incarichi nel Partito, o come capita quasi sempre, nelle Istituzioni e nel sottogoverno. 

La sparizione delle correnti, eliminando il confronto interno, ha di fatto tirato una riga sul concetto di Partito democratico e costituzionale.

Le attuali Forze politiche sono Partiti personali (o al massimo cartelli elettorali) in cui il Capo decide tutto; dalla linea politica alle candidature, senza mai avere un vero confronto alla pari con altre componenti del Partito; e non a caso di fatto i Congressi non si fanno quasi più, e se si fanno sono kermesse a sostegno del Capo.

Questa evoluzione, che io definisco “autoritaria e centralista”, non ha effetti solo nella vita e nelle dinamiche interne ai Partiti, perché inevitabilmente si riverbera anche nel funzionamento del Parlamento italiano, oramai da tempo condannato ad operare in uno stato di perenne decomposizione-composizione-scomposizione dei Gruppi Parlamentari, vale a dire un’Istituzione in permanente oscillazione tra voti di fiducia blindati ed irrefrenabili fenomeni di “transfughismo”.

Inutile girarci attorno, in questi anni abbiamo assistito ad una sorta di “mutazione genetica”, che ha visto i Partiti trasformarsi da luoghi di partecipazione a disposizione dei cittadini, a macchine elettorali a disposizione del Capo. 

Non più Partiti di massa organizzati attorno ad istanze ideologiche, e capaci quindi di durare nel tempo, bensì “weak parties”, Partiti fragili che traggono la propria identità, ma anche la propria debolezza, dall’appeal del leader, dalle sue doti, dalle sue capacità personali, dalla sua biografia. 

Quindi non servono più le strutture organizzative, gli apparati, di un tempo; i Partiti del Capo sono per definizione piuttosto agili, ed il loro obiettivo non è più quello di proporre una “visione della società”, bensì quella di captare gli “umori della gente”, le tendenze del momento, al fine di trarre “buoni rendimenti” e “alti profitti” all’interno di un mercato elettorale sempre più inquieto, sempre più volatile, sempre più incline all’astensionismo.

Date queste premesse, che non sono altro che la fotografia dell’oggi, si capisce perché i cosiddetti “rappresentanti del popolo” non sono più espressione di un processo di selezione di una classe dirigente formata e preparata, bensì direttamente reclutati dal leader, inevitabilmente sulla base dei consueti parametri personali di affidabilità e di fedeltà al Capo.

Con il corollario non trascurabile che, in mancanza di una classe dirigente spendibile,  sono saltati tutti gli schemi, ogni riguardo alla coerenza, spesso anche il senso del ridicolo, ed i Capi Partito ad ogni elezione sono a caccia di esponenti della cosiddetta “società civile”, nomi noti in altri campi (dalla moda, allo spettacolo, al giornalismo, allo sport, alle forze armate, alla magistratura, al sindacato, all’industria ecc.) da usare come altrettante foglie di fico sui fronti in cui ritengono di essere scoperti, come specchietti per le allodole verso questo o quel pezzo di elettorato. 

D’altra parte, credo che questi “personaggi famosi” siano ben consapevoli di assumere il ruolo di “acchiappa-voti”, ma sembra che per molti di loro qualsiasi tram sia buono pur di sedersi in Parlamento, a Roma o a Bruxelles.

Risponde alla stessa logica la necessità dei Capi di mettersi in lista per queste europee, pur sapendo che a Bruxelles non ci andranno mai; infatti questi leader vedono nelle elezioni un test di conferma  della propria notorietà, mentre nessun Segretario politico dei vecchi Partiti avrebbe neppure pensato ad una simile presa in giro dell’elettorato.

Concludendo, io lo so bene che la storia e la società vanno avanti, e che indietro non si torna mai. 

Ma almeno si abbia il coraggio di guardare in faccia la realtà, ammettendo che  il «sistema dei Partiti” si è trasformato in una sorta di “regime”, in cui la questione morale si mescola con l’analisi politica, che diviene tanto più moralistica quanto più astratta.

Umberto Baldo

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