Serie TV – The White Lotus e Il Gattopardo: una da vedere, l’altra no

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Di Alessandro Cammarano
È da un po’ di tempo che mancano i “consigli per gli acquisti” per quanto riguarda le serie– “fiction” per gli anglofili-acculturati – in onda in questo momento sulle varie piattaforme streaming o satellitari.
Vale la pena di concentrarci su due prodotti in particolare: uno da vedere assolutamente, recuperando anche le stagioni passate, mentre l’altro è da evitare accuratamente, scegliendo in alternativa di uscire a farsi un aperitivo o di giocare a “Nome in codice” con gli amici.
La serie da vedere, giunta alla terza e conclusiva stagione – da sottolineare che ciascuna ha vita propria anche se personaggi e situazioni ritornano – è The White Lotus, in onda su SKY.
Creata da Mike White e prodotta da HBO, la serie si distingue per la sua scrittura brillante, performance attoriali di alto livello e un’estetica visivamente accattivante, dimostrandosi una delle più intriganti e sofisticate degli ultimi anni, capace di fondere satira sociale, dramma psicologico e mistero in un’unica esperienza avvincente.
Ogni stagione di The White Lotus è ambientata in un lussuoso resort di una diversa località esotica, offrendo uno sguardo privilegiato – e spesso impietoso – sulle vite dell’élite che vi soggiorna. Il format della serie segue un racconto corale, in cui le storie di vari ospiti e dipendenti dell’hotel si intrecciano, rivelando ipocrisie, tensioni sociali e fragilità umane. Il mistero, introdotto fin dall’inizio di ogni stagione con un evento tragico, tiene alta l’attenzione dello spettatore fino al finale.
Uno degli aspetti più riusciti della serie è la sua capacità di analizzare le dinamiche di potere attraverso il filtro del lusso e del turismo di fascia alta, esplorando con acutezza disincantata tematiche tutt’altro che banali, mettendo da parte il “politicamente corretto”.
Ad essere stigmatizzato è il benessere economico e il senso di superiorità e l’illusione di invulnerabilità che porta con sé; i personaggi ricchi spesso sfruttano – consapevolmente o meno – i dipendenti del resort, generando tensioni sottili ma significative.
Altro pilastro della narrazione sono le relazioni tra uomini e donne sono uno dei pilastri della narrazione, con una riflessione acuta su sessualità, tradimento e dinamiche di potere all’interno delle coppie.
Nonostante il lusso sfrenato e la bellezza mozzafiato dei luoghi, i personaggi spesso si rivelano profondamente insoddisfatti, mostrando la vacuità di un’esistenza basata solo su status e apparenze.
Dal punto di vista visivo, la serie è un vero capolavoro.
Ogni stagione sfrutta al massimo il luogo scelto—Hawaii nella prima, Sicilia nella seconda e Thailandia nella terza — per creare un’atmosfera unica, con riprese coinvolgenti e una fotografia che esalta il contrasto tra la bellezza del paesaggio e il marciume morale dei personaggi.
Le performance degli attori sono un punto di forza assoluto. Jennifer Coolidge, nel ruolo dell’eccentrica Tanya McQuoid, ha offerto una delle interpretazioni più memorabili della sua carriera, guadagnandosi un Emmy. Anche gli altri membri del cast, tra cui Murray Bartlett, Aubrey Plaza, Theo James e F. Murray Abraham, brillano per profondità e sfumature nei loro ruoli. Nella Terza stagione approdano tra gli altri Jason Isaacs, ovvero il Lucius Marfoy della saga di Harry Potter, il figlio d’arte Patrick Schwarzenegger e Aimee Lou Wood.
Da incorniciare, infine, la colonna sonora ipnotica e tribalistica composta da Cristobal Tapia de Veer, che contribuisce a creare un senso di tensione e stranezza, perfettamente in linea con la narrazione. Il tema principale, con i suoi ritmi ossessivi, è diventato iconico e virale sui social.
Da abbandonare a se stesso, invece il remake de il Gattopardo, attualmente disponibile su Netflix.
Presentato come un’ambiziosa reinterpretazione del capolavoro letterario di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si rivela fin da subito un prodotto scialbo e privo della profondità storica, estetica ed emotiva che hanno reso immortale il film di Luchino Visconti del 1963.
Fin dalle prime scene, appare evidente il tentativo di modernizzare la narrazione, ma questa scelta si traduce in una semplificazione estrema dei temi complessi dell’opera originale: mentre Visconti riusciva a trasportare lo spettatore nell’atmosfera decadente e sontuosa della Sicilia ottocentesca, la fiction di Netflix si limita a un’estetica generica e priva di carattere, con una fotografia piatta e una regia priva di qualsiasi tocco autoriale.
Uno degli aspetti più deludenti è senza dubbio la caratterizzazione dei personaggi; il Principe di Salina, interpretato magistralmente da Burt Lancaster nel film di Visconti, qui diventa, nelle mani del pur bravo Kim Rossi-Stuart, una figura anonima e priva di carisma, prigioniera di dialoghi banali e di una sceneggiatura che svuota il suo tormento interiore. Lo stesso vale per Tancredi – il non indimenticabile Saul Nanni, sconfitto su tutta la linea nel confronto impari con Alain Delon – che perde tutta la sua ambiguità affascinante, ridotto a un personaggio stereotipato privo di spessore.
Angelica, che nel film originale incantava con il volto e la presenza magnetica di Claudia Cardinale, affidata qui a Deva Cassel, in questa versione appare solo come un personaggio bidimensionale, senza lo stesso impatto visivo ed emotivo.
Ma il vero punto dolente è la totale mancanza della grandiosità visiva e simbolica che Visconti aveva saputo infondere nella sua opera.
La scena del ballo, apice dell’opulenza e della decadenza di un mondo al tramonto nel film del 1963, qui è ridotta a un evento privo di pathos, con una messa in scena fredda e priva di eleganza: dove Visconti costruiva inquadrature pittoriche, evocando la grande pittura figurativa dell’Ottocento, la serie Netflix si accontenta di un’estetica da “costume drama generico”, senza alcuna profondità artistica.
Infine, la colonna sonora è un altro aspetto che lascia a desiderare non poco: mentre nel film originale la musica era di quel genio assoluto di Nino Rota e contribuiva ad elevare la narrazione e a sottolineare il contrasto tra il vecchio e il nuovo mondo, qui l’accompagnamento musicale è di desolante piattezza oltre che di avvilente banalità
In definitiva, Il Gattopardo di targato Netflix è un’operazione fallimentare, che tradisce lo spirito del romanzo e del film di Visconti, trasformando un’opera di grande raffinatezza e complessità in una fiction mediocre e senz’anima.
Chiunque abbia amato il capolavoro viscontiano farà meglio a evitare questa versione e a rivedere il film del 1963, l’unico vero Gattopardo degno di questo nome, magari alternandolo con le tre stagioni di The White Lotus.