29 Dicembre 2021 - 10.23

Siamo tutti insopportabili chef! Dove è finita la cara vecchia osteria?

di Alessandro Cammarano

Una volta si diceva che durante le Feste siamo tutti più buoni, oggi invece siamo tutti più … cuochi.

Non che in passato non si cucinasse, anzi: a cominciare da Marco Gavio Apicio, che vissuto tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo è da considerarsi il primo chef della storia e anche il progenitore di tutti gli scrittori di argomenti legati al cibo visto che ci ha lasciato il “De re coquinaria” ovvero una raccolta di ricette tra le quali prelibatezze come i ghiri al miele, le murene farcite di quaglie e altre prelibatezze simili.

Il tutto era condito o con il mosto cotto o con il “garum” fetida salsa derivata dalla decomposizione delle acciughe, una specie di colatura di Cetara ultrapotenziata e che oggi sarebbe classificata tra le armi chimiche.

Seguirono nei secoli i grandi cuochi portati dall’Italia in Francia da Caterina de’ Medici – insieme per altro ad una folta schiera di avvelenatori spacciati per “profumieri” – e che di fatto inventarono la cucina francese; da noi, nell’Ottocento, ci fu un fantastico signore a nome Pellegrino Artusi che pur occupandosi di tutt’altro aveva una gran passione per la buona tavola e si dette a raccogliere ricette da ogni parte d’Italia per inserirle poi nel suo arcifamoso “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” che ancora oggi si ristampa e si legge anche se solo a scorrere gli ingredienti il colesterolo schizza e i trigliceridi ululano.

In tutte le case si è sempre fatto da mangiare – più semplicemente durante la settimana, in maniera più elaborata la domenica e come se non ci fosse un domani durante le feste comandate – ma adesso, grazie ai food-blogger, ai tele-chef e alle signore che vanno in televisione a fare le ricette di nonna non ci si salva più e per osmosi anche la famosa casalinga di Voghera di arbasiniana memoria – alla quale per parità di genere affianchiamo anche il ragioniere di Pratola Peligna – si trasforma in una seguace del new-food e della “scomposizione”.

Il peggio però avviene nella ristorazione, dove oramai anche l’osteria “drio el cantón” percepisce se stessa come bistrot stellato.

Eh già, la rovina vera delle tagliatelle al ragù e dei bigoli in salsa – per non parlare dei radicchi saltati con il lardo e l’arrosto di vitello – che erano il fiore all’occhiello delle vecchie trattorie fuori porta sono le nuove tendenze.

Accade infatti che “dalla Cesira” – il nome è ovviamente di fantasia – il vino sfuso della casa, solitamente un onesto merlot, venga servito dalla nipote della titolare con tanto di tovagliolo sul braccio e nella solita caraffa, ma questa volta la ragazza chiede “chi assaggia?” come se si trattasse di un Romanee-Conti Grand Cru del 2007 che per la cronaca è un vinello che va sui quarantamila euro a boccia.

Immancabili anche alla “Taverna del buso” i dessert al cucchiaio serviti nel vasetto col tappo ermetico e ovviamente spolverati da granella di pistacchio che da qualche tempo è diventata quello che la rucola è stata negli anni novanta e i pomodorini, divenuti poi confit, sono stati per il primo decennio del nuovo secolo.

Nei ristoranti di maggior livello, complici i sempre più onnipresenti chef pluristellati che monopolizzano qualsiasi programma televisivo a qualunque ora del giorno e della notte, equamente divisi tra coocking show, programmi di cronaca, resoconti giudiziari, racconti di UFO, trasmissioni per bambini e rubriche religiose.

Alle star dei fornelli, che per inciso da anni non cucinano più nemmeno un uovo in camicia dedicandosi allo sviluppo dei loro marchi, dobbiamo una terminologia della quale abusa chiunque.

Ecco dunque la ricerca affannosa delle “eccellenze del territorio”, dei “fagioli trombini” perduti e ritrovati, delle mele “quelle che la mia trisavola dava ai maiali ma che invece sono patrimonio dell’umanità”, dei formaggi di capra antica affinati in grotte decorate con rune celtiche, dei cereali che anche gli Etruschi schifavano ma che oggi sono venerati come sacre reliquie.

Tutto viene cucinato rigorosamente sottovuoto o a bassa temperatura o in olio cottura, rispettando ovviamente il “gioco di consistenze” tanto che un piatto non può dirsi tale se al suo

interno non c’è qualcosa di crudo, qualcosa di cotto, qualcosa di freddo, qualcosa di caldo, qualcosa di moscio e infine un elemento croccante; il tutto coronato dall’imprescindibile “nota di acidità”, quest’ultima riservata al commensale che all’arrivo della pietanza – costo sessantacinque euro – non sa dove piantare la forchetta e rimpiange i tagliolini burro e sugo di nonna sua.

L’elemento più fastidioso è dato dal menu, per la decifrazione del quale è necessario un corso di storia ed esegesi della lingua italiana compendiato dal ripasso di tutte le figure retoriche disponibili.

Vogliamo fare un giochino? Immaginiamo la carta di un ristorante medio-alto?

Per cominciare: fantasia di salumi della Norcineria del Sor Fidenzio Pernacchioni di Castelminchione con i formaggi di Amilcare Stragaldon e le loro confetture.

Il primo: il nostro spaghettone trafilato al bronzo di cannone prussiano del Commendator Stragapede di Culicchio con dadolata di pomodorini di Torrepompilia DOP profumati al basilico primaticcio e spolverata di Pecoreccio del Grindano DOCG.

Il secondo: filettino di orata pescata a lenza in olio cottura ai sentori di primavera e spuma di rugiada montana su letto di verdurine in tre consistenze.

Il dessert: il cannolo destrutturato con mousse di ricotta di pecora nepalese e gocce di cioccolato fondente 90% Iguacalbo de Gonzales e piccola guarnizione di zeste di arancia caramellata all’essenza di cardamomo, servito con cappuccino di anacardi su mousse di petali di rosa spampanata.

Costo: sui duecentodieci euro vino e caffè esclusi.

Sapete che c’è? Io vado a mettere su il brodo per i tortellini; cappone, cappello del prete, un osso, sedano-carota-cipolla e chi s’è visto s’è visto.

Alessandro Cammarano

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