Sovranismo all’amatriciana. Ecco perché l’elettore di destra italiano dovrebbe preferire i democratici negli USA
Sovranismo all’amatriciana. Ma veramente Trump farebbe bene all’Italia?
Umberto Baldo
Nel corso della tradizionale cerimonia del “Ventaglio” il Presidente Sergio Mattarella ha detto fra l’altro: “Rimango sorpreso quando si dà notizia o si presume che vi possano essere posizionamenti a seconda di questo o quell’esito elettorale, come se la loro indubbia importanza dovesse condizionare anche le nostre scelte. Nessuno – vorrei presumere – ipotizza di conformare i propri orientamenti a seconda di quanto decidono gli elettori di altri Paesi e non in base a quel che risponde al rispetto del nostro interesse nazionale e dei principi della nostra Costituzione. Questo vale sia per l’Italia che per l’Unione Europea….”
Non capite bene il senso di questa uscita presidenziale?
Ve lo dico con parole semplici; poiché Mattarella conosce bene i “vizi” dei nostri Demostene, chiaramente mette le mani avanti, volendo sperare che la Presidente del Consiglio non modificherà gli indirizzi di politica estera del nostro Paese, acconciandosi a fare dell’Italia una “cameriera” di The Donald, acquiescente nei confronti dei suoi propositi illiberali.
Ma già lo scegliere di esternare questo suo auspicio mostra un certo pessimismo di fondo sul fatto che ciò purtroppo possa avverarsi.
D’altronde Mattarella ha percepito bene che lo smalto vincente di Giorgia Meloni nell’ultimo passaggio alle “trattative europee” si è un po’ appannato, che la premier sembra aver perso il “tocco magico”, che il suo ruolo di guida dei Conservatori europei è in netta crisi, e sa bene che qualora la musica oltre oceano dovesse suonare “in chiave trumpiana”, il richiamo della foresta si farebbe irresistibile, e potrebbe portare la premier e FdI a fare a gara con Matteo Salvini fra chi è più vicino al Tycoon.
Non ho dubbi nell’affermare che Mattarella, molto attento al posizionamento internazionale ed europeista del Paese, forse comincia a sentire l’odore sulfureo che il “pacifista” Trump sta diffondendo a proposito della guerra in Ucraina, che a suo dire lui sistemerebbe in 24 ore, ovviamente con la resa a Putin (da lui definito come “persona intelligente che ama il proprio Paese”).
Non sono sicuramente al livello di Sergio Mattarella, ma nel mio piccolo conosco bene anch’io lo sport più praticato nella nostra Repubblica di Pulcinella: quello del “salto sul carro del vincitore”.
Sport fra l’altro ben noto anche in altri Paesi, visto il corteggiamento a Trump messo in atto da Viktor Orbàn, in spregio del sentiment dei partner europei.
Siccome avremo modo di tornare nei prossimi mesi sulle contorsioni, sugli abboccamenti, sugli avvicinamenti, a “Donald biondi capelli”, io al momento vorrei concentrarmi sugli aspetti economici che deriverebbero da una eventuale vittoria di Trump.
Effetti che, consentitemi di dire, avrebbero poco a che vedere che le “teorie sovraniste” dei nostri Demostene (delle quali ad esempio io ne me frego altamente), ma molto con la nostra qualità della vita, cosa che invece valuto molto più pregnante.
Quindi non posso che partire da questa domanda che rivolgo a Giorgia Meloni e Matteo Salvini; ma siete così sicuri che un Trump vittorioso sarebbe una opportunità, una fortuna per il nostro Paese?
Io al riguardo ho molti dubbi, e li espongo brevemente.
Innanzi tutto credo si debba partire dalla constatazione che anche il solo accostare i nostri Partiti a quelli americani è un mero sintomo di provincialismo puerile.
Solo per fare due esempi; vi sembra che Salvini abbia qualcosa a che spartire con i repubblicani a stelle e strisce, o Fratoianni, un epigono del comunismo europeo, con Joe Biden o Kamala Harris?
Venendo poi all’oggi, fra il Repubblicano Ronald Reagan, che fu campione del liberalismo in economia, ed il Repubblicano Donald Trump, protezionista convinto, c’è la stessa differenza che esiste fra il dottor Jekyll e Mister Hyde.
Il programma di Donald Trumpè estremamente chiaro, come emerge dall’Agenda 47 pubblicata sul suo sito.
Il programma prevede tasse universali del 10% sulle importazioni di tutti i beni e servizi; un aumento dei dazi nei confronti dei Paesi che ne impongono agli Stati Uniti, onde raggiungere un livello di reciprocità; la revocadello status di «nazione più favorita» di cui gode la Cina, accompagnata da nuove tasse sulle importazioni fino al 60%; la reintroduzione dei dazi sulle importazioni di acciaio, e nuove tasse sui prodotti europei, in particolare le automobili, spesso tedesche.
Secondo Goldman Sachs i dazi americani medi sui prodotti anche europei quintuplicherebbero, per arrivare attorno al 12%, ed il colpo sarebbe subito soprattutto dai Paesi più vocati alla manifattura e all’export, Germania e Italia in testa.
Secondo le stime della banca d’affari, l’Eurozona subirebbe un rallentamento della propria economia di circa un punto percentuale del proprio PIL.
Proprio quanto accaduto nel 2018 suggerisce l’impatto che potrebbero subire gli Stati europei: allora nei mesi successivi l’introduzione dei dazi voluti da Trump, nettamente meno invasivi rispetto a quelli proposti ora, sia la produzione industriale che gli ordini di acquisto delle aziende manifatturiere subirono un calo di diversi punti percentuali.
A cosa mirano Trump ed il suo Vice Vance con questo neo-protezionismo in salsa America First?
Possono sperare, in positivo, nella rilocalizzazione (rientro negli Usa)di alcune industrie e servizi, che acquisirebbero automaticamente maggiore competitività.
È il loro argomento elettorale principe: più industrie locali e quindi maggiore occupazione (ma con Biden l’occupazione non è mai andata così bene).
Aumenterebbero automaticamente anche gli introiti federali. In un contesto di disavanzo di bilancio cronico e di elevati tassi di interesse, questa argomentazione riveste un peso significativo, in quanto, stando alla Tax Foundation, il gettito generato ogni anno dalle nuove tasse potrebbe attestarsi attorno ai 300 miliardi.
Certo qualche conseguenza negativa potrebbe esserci anche per loro.
In primo luogo l’inflazione Usa subirebbe inevitabilmente un’impennata per via delle tasse sui beni e servizi importati. Gli stessi produttori americani subirebbero l’inflazione quando dovessero ricorrere alle importazioni, così come i consumatori di beni importati. Inoltre, la minore concorrenza derivante dalla penalizzazione delle imprese straniere, consentirebbe a quelle locali di disporre di margini più ampi per incrementare i prezzi (del resto, non avrebbero altra scelta visto che il costo del lavoro americano è ben superiore a quello della maggior parte dei partner commerciali).
Ricapitolando, Trump vorrebbe proteggere gli americani tra dazi, sussidi e crediti fiscali, vorrebbe creare una “grande isola” di nuovo produttiva, riportare le fabbriche in America, colpire i vantaggi competitivi dei cinesi fiaccandone l’offensiva commerciale.
Per risorse e capacità produttive, gli Stati Uniti possono puntare alla re-industrializzazione ma, pensateci bene, chi rischia di pagare il conto più pesante, finendo per uscire a pezzi dalla guerra commerciale tra le due potenze è l’Europa (si stimano effetti negativi per 150 miliardi. Che non interesserebbero certo Cipro o l’Ungheria, ma si concentrerebbero prevalentemente sui prodotti tedeschi ed italiani).
Non c’è dubbio che con il sovranismo protezionista trumpiano, seguito a ruota da quello cinese, il vecchio continente resterebbe in mezzo al guado.
Senza contare che il calo delle esportazioni, e quindi del Pil, di fatto renderebbe per noi europei impossibile spendere di più nella difesa, mantenere il welfare attuale, e completare la transizione ecologica.
Sono pronto a scommettere che uno di questi tre aspetti andrebbe subito sacrificato; e per ragioni politiche e sociali sarebbe più facile ridurre l’investimento in politiche green.
Se così sarà ci troveremmo di fronte ad uno spettacolare fallimento europeo: perso il primato nell’auto, arretrati nell’elettrico, senza alcuna autonomia strategica su catene di approvvigionamento e materie prime.
Riprendersi da questo suicidio industriale, soprattutto per le imprese italiane (e qui parliamo soprattutto di Nord e Nord Est) sarebbe molto difficile, e certamente non privo di conseguenze nefaste.
Spero che queste mie preoccupazioni coinvolgano anche i nostri governanti.
Ai quali mi sento di dire di non sperare in eventuali “trattamenti di favore” da parte degli Usa per “meriti sovranisti”, perché il sovranismo è l’antitesi dell’ internazionalismo, è egoismo che chiama altro egoismo, è un invito a che ciascuno pensi al proprio “first”, o alla propria “Naaazzzzziiiioooone” se preferite.
Tanto più che Trump, una volta chiusa la partita Ucraina (con la svendita di Kiev), qualora lo zio Vladimir innescasse qualche altra “operazione speciale” in Europa, ci direbbe “ragazzi, sono cazzi vostri, noi siamo impegnati nel Pacifico”.
E tenete conto che questa America divisa su tutto, trova un unico punto di convergenza: l’ostilità nei confronti della Cina.
Umberto Baldo