Stati Uniti, un voto che riguarda noi e il nostro futuro
Ci siamo.
Domani, martedì 8 novembre, i cittadini degli Stati Uniti d’America scelgono il loro 45° presidente, e ancora non c’è una previsione certa su chi prevarrà tra Donald Trump e Hillary Clinton, dopo una campagna elettorale avvelenata e cruenta, in cui i candidati repubblicano e democratico non hanno lesinato attacchi reciproci, anche personali.
Fino a metà ottobre tutto sembrava deciso.
Anche il terzo confronto televisivo tra i due contendenti aveva visto Trump sconfitto, da Clinton, ma soprattutto dalla sua incapacità di formulare una concreta proposta politica che non avesse una deriva populista o offensiva nei confronti della sua oppositrice e in generale di tutto ciò che non corrisponde al suo mondo di miliardario, affarista, spregiudicato, incurante delle leggi, soprattutto fiscali, vicino alle lobby delle armi, aggressivo, sessista seriale, costantemente incline a svilire le donne e a considerarle solo se avvenenti e disponibili, intollerante verso le fasce deboli della popolazione e soprattutto delle minoranze etniche, al punto di proporre la costruzione di un muro tra gli Stati Uniti e il Messico per contrastare l’immigrazione.
Un uomo che divide il mondo tra chi è con lui e chi è contro, un uomo che ha già dichiarato di voler ridiscutere la presenza degli Usa nella Nato e ha dato più volte segnali di preferire Putin e la Russia agli storici alleati occidentali.
Un uomo che, nel ripetere come un mantra il suo slogan “Made America Great Again”, “Facciamo di nuovo Grande l’America”, ogni giorno alimenta rabbia e malcontento, provando a spaccare il tessuto sociale di un Paese che sotto l’amministrazione Obama in realtà è uscito dalla crisi prima di qualunque altro al mondo, con un recupero straordinario sul piano economico, che oggi vede una corposa crescita economica dimostrata anche dai successi ottenuti contro la disoccupazione, calata al 6,3%, il dato più basso dal 2008.
Un uomo che ha mostrato imbarazzanti e gravi lacune politiche e di preparazione anche su temi cruciali, contro il quale Hillary Clinton, da politica scaltra e competente, sembrava avere gioco facile, fino all’iniziativa assunta dall’Fbi di riaprire, in modo del tutto irrituale in prossimità di un’elezione presidenziale, l’indagine da cui era uscita senza accuse sull’utilizzo di un server privato, quando era segretario di Stato dell’amministrazione Obama, per scambi di mail che riguardavano anche materiale classificato di sicurezza.
Tutto sembra rientrato, dopo che il Federal Bureau ha confermato l’archiviazione di luglio e Clinton ha ripreso un margine di vantaggio nei sondaggi, spinta anche dalla massiccia partecipazione degli ispanici al pre voto previsto negli Stati Uniti.
Nulla però è ancora deciso, perché il margine di vantaggio non garantisce la vittoria e non si può escludere qualche tentativo dell’ultima ora dell’aggressivo Trump, che già nell’ultimo dibattito ha dichiarato di non volere riconoscere la vittoria dell’avversaria in caso di sconfitta, con uno strappo che viola una prassi consolidata negli States e rischia di minarne alle fondamenta l’impianto democratico.
Questa affermazione segna più di altre il tratto umano e politico di Trump.
Quello di chi sembra non avere alcun interesse per il benessere del proprio Paese e dei suoi cittadini, ma dimostra di voler solo aspirare ad affermare se stesso, come un qualsiasi leader di Stati dove la democrazia è considerato un inutile e fastidioso orpello.
Certamente Hillary Clinton non riscontra un consenso unanime, non convince per alcune scelte strategiche passate, soprattutto in politica estera, e non brilla per trasparenza nella gestione delle risorse della Fondazione aperta con il marito, l’ex presidente Bill.
Però è una politica struttura e competente, solidamente ancorata alle tradizioni democratiche americane e occidentali, convinta sostenitrice dell’alleanza Atlantica e con l’Europa.
In più la sua elezione, come prima presidente degli Stati Uniti donna, avrebbe anche un profondo valore simbolico, in un mondo dove ancora troppo spesso, anche nei Paesi più evoluti, esiste una radicata e inaccettabile avversione verso l’universo femminile, come dimostrano i dati italiani sui femminicidi.
L’America, quindi, ancora una volta, si trova a compiere una scelta che ha un significato che va oltre i propri confini e riguarda tutti noi, perché è chiaro che l’esito del voto avrebbe un profondo significato politico, sociale e culturale.
Lo scontro non è infatti solo tra Trump e Clinton, ma è tra due opposte visioni del mondo.
La vittoria di Trump infatti sarebbe la negazione di quelle politiche di alleanze che hanno caratterizzato il mondo occidentale dopo la seconda guerra mondiale, con l’idea di trovare una convivenza pacifica anche tra popolazioni diverse.
La vittoria di Trump darebbe inoltre una spinta decisa a tutti i leader o presunti tali che, anche in Europa, hanno posizioni populiste e nazionaliste, che preferiscono costruire muri per dividere il mondo e steccati tra i cittadini all’interno di quei muri, che propongono di uscire dall’Unione Europea e si battono contro una società inclusiva.
La vittoria di Trump in più sarebbe il ritorno a un mondo che al dialogo, alla convergenza di opinioni e al confronto costruttivo antepone lo scontro, anche fisico, le contrapposizioni e l’aggressività.
La vittoria di Trump di fatto farebbe prevalere l’idea di un mondo machista dove si devono mostrare i muscoli per prevalere e spesso per nascondere la mancanza di argomentazioni.
Ecco, noi in questa contrapposizione, umana e culturale, prima che politica, saremo sempre per chi vuole unire, per chi costruisce ponti invece di muri, per chi crede nel dialogo e lavora per la pace.