Stipendi bassi? Non solo i laureati, “va’ via anca i murari!”
L’altro giorno, sfogliando un quotidiano del nostro Veneto, sono rimasto colpito dalle preoccupate dichiarazioni di un imprenditore edile circa le sempre maggiori difficoltà a reperire manodopera anche nel settore delle costruzioni.
Secondo l’impresario intervistato, le ragioni di queste criticità derivano dal fatto che molti lavoratori dell’edilizia (non solo italiani) si sono spostati all’estero, dove ricevono stipendi più alti.
Ma come, mi è venuto spontaneo osservare, capisco medici, ingegneri, chimici, e in generale lavoratori ad alta scolarizzazione e professionalità, ma “se va’ via anche i murari” (in lingua italica “se vanno via anche i muratori”) decisamente c’è qualcosa di malato nella nostra economia e nel nostro mercato del lavoro.
Al di là dello stupore momentaneo relativo agli operatori delle costruzioni, la cosa in realtà non mi ha meravigliato più di tanto.
Perché sono anni che lamentiamo la fuga dei nostri ragazzi dall’Italia, senza però che la classe politica sia riuscita, al di là di promesse e belle parole, a porre un argine al fenomeno.
Ormai lo sanno anche i sassi che gli stipendi degli italiani sono sostanzialmente gli stessi dalla metà degli anni ’90 (rispetto a vent’anni fa la retribuzione media in Italia è cresciuta dello 0,5 per cento, contro il 20,1 per cento in Germania, ed il 23,9 in Francia), e il problema sta diventando ancora più pressante in questo momento di alta inflazione, ossia di aumento generalizzati dei prezzi, che per definizione impoverisce chi ha un reddito fisso.
E quindi diventa inevitabile la domanda: perché un lavoratore italiano guadagna in media 15 mila euro in meno all’anno di un lavoratore tedesco, quasi 10 mila in meno di uno francese. e quasi la metà di uno americano?
E badate bene che questo succede a parità di potere di acquisto, perché per fare questi raffronti si utilizza una tecnica statistica che consente di eliminare le differenze del costo della vita fra Paese e Paese.
Possiamo girarci attorno fin che vogliamo, possiamo discutere all’infinito, ma le ragioni di questo “gap stipendiale” sono sostanzialmente due.
Il primo problema sta nel fatto che l’economia italiana ormai da molti anni non è sostanzialmente cresciuta, è ciò ha impedito agli stipendi di aumentare di conseguenza.
L’altro problema, comunque collegato alla crescita, è che negli ultimi decenni è rimasta ferma anche la produttività del lavoro, ormai vero “male oscuro” della nostra Italia.
Capisco che l’espressione “mancato aumento della produttività” non sia facilmente comprensibile nella sua intima essenza, ma semplificando al massimo significa che il reddito prodotto da ciascun lavoratore negli ultimi vent’anni è rimasto più o meno lo stesso, mentre è aumentato notevolmente negli altri grandi Paesi.
Forse qualche esempio può aiutare anche la Siora Maria, che magari di economia ne mastica poca.
Prendiamo due aziende: l’azienda A produce 10 manufatti impiegando un lavoratore ed una macchina, mentre l’azienda B ne produce 15, sempre impiegando lo stesso lavoratore e la stessa macchina.
Perché? Beh, il lavoratore potrebbe essere più preparato, o la macchina più efficiente.
Il risultato è che l’azienda B risulta più produttiva, perché a parità di spese per manodopera e macchinari produce più reddito.
E concentrandosi sulla redditività, se l’azienda A, mettiamo sia tedesca, ha bisogno di 10 operai per produrre 100 manufatti, mentre all’azienda B, poniamo italiana, ne servono 20 sempre per produrre gli stessi 100 manufatti, alla fine dell’anno il guadagno delle due aziende sarà identico, ma mentre l’azienda tedesca potrà decidere di pagare di più i suoi dipendenti, l’impresa italiana non se lo potrà permettere.
Come si vede, non sono concetti poi così astrusi, e che gli stipendi degli italiani siano talmente bassi da far fuggire persino i “murari” trova conferma nel fatto che nel 2020 ogni ora lavorata nel BelPaese ha prodotto circa 55 dollari di PIL, contro i 67 della Germania, i 68 della Francia ed i 73 degli Stati Uniti.
Il corollario è piuttosto intuitivo, e postula che un’azienda più produttiva è anche un’azienda più ricca, che può aumentare gli stipendi ai propri dipendenti, reinvestire i guadagni per diventare ancora più produttiva, oppure creare utili per l’imprenditore.
Quindi usando forse impropriamente un sillogismo, si può dire che se l’Italia non riuscirà ad aumentare la produttività, non aumenteranno nemmeno gli stipendi dei lavoratori.
Credo che dagli esempi si intuisca che la produttività non dipende da un solo elemento (sarebbe troppo facile), ma da un complesso di fattori, che vanno dalle tecnologie agli investimenti per la ricerca, dalla scolarizzazione di base e dalla formazione dei lavoratori, all’ organizzazione del lavoro, e quant’altro.
E badate bene che il problema della poca produttività del nostro Paese dipende anche in buona parte dalla cronica inefficienza del nostro settore pubblico.
Quando penso, per fare un solo esempio, che i lavori per il Terzo Ponte sul Bosforo, e siamo in Turchia non in Cina o negli Usa, presero il via il 29 maggio 2013 e l’inaugurazione, con apertura al traffico, avvenne il 26 agosto 2016 (tempo di realizzazione di soli 3 anni e 3 mesi, un vero e proprio record), mi viene da piangere, perché nello stesso tempo da noi al massimo si riesce a completare una rotonda spartitraffico.
Eppure volendo, togliendo lacci e lacciuoli, limando le unghie alla burocrazia, le cose si potrebbero realizzare in tempi normali anche in Italia, come la ricostruzione dell’ex ponte Morandi a Genova ha dimostrato.
Certo sulla bassa produttività influisce in parte anche la bassa istruzione e formazione di molti imprenditori e manager, che lasciando poco spazio all’innovazione, non sono in grado di mettere i dipendenti in condizioni di lavorare all’interno di dinamiche aziendali più efficienti.
Ma io penso che anche le politiche sindacali abbiano influito ed influiscano su questa problematica.
Mi spiego meglio.
Quasi la totalità dei dipendenti in Italia è assunta con l’applicazione di un contratto collettivo di lavoro, ossia contratti standard negoziati a livello nazionale dai Sindacati dei lavoratori con le Associazioni datoriali.
Ciò comporta inevitabilmente che la contrattazione collettiva abbia avuto il merito di tutelare i lavoratori di bassa professionalità, quelli che non hanno una grande forza contrattuale nei confronti delle aziende; e non è un caso (secondo Itinerari Previdenziali) che i livelli retributivi di fascia inferiore, ossia quelli dei lavori e dei ruoli più modesti, in Italia siano piuttosto alti rispetto alla media europea.
Ma l’effetto collaterale della scarsa diffusione della contrattazione di secondo livello, e soprattutto individuale, è stato quello di schiacciare verso il basso le retribuzioni di chi meriterebbe di più, che poi sono quelli che cercano e trovano sbocchi in altri Paesi.
Va poi sfatato anche il mito che il cuneo fiscale sia il motivo per cui le paghe dei lavoratori italiani sono più basse, perché paragonando le tasse sul lavoro di altri Paesi balza agli occhi ad esempio che Francia e Germania, che hanno retribuzioni più alte di quelle italiane, abbiano anche un cuneo fiscale più alto del nostro.
Ieri scrivevo che le esportazioni italiane nel 2022 hanno raggiunto la quota stratosferica di 625 miliardi (il 32,7%del Pil).
Questo dato mi stimola la domanda: perché riusciamo ad esportare così tanto?
Perché abbiamo imprese eccezionali, oppure perché sfruttiamo il gap salariale dei nostri lavoratori nei confronti di quelli degli altri Paesi nostri concorrenti?
Perché se così fosse, almeno relativamente al costo del lavoro, saremmo in concorrenza più con i paesi emergenti che con i partner europei, esclusi al momento i Paesi dell’est.
Concludendo, se le retribuzioni nel Belpaese sono basse, e non si sono mai adeguate veramente al costo della vita, è perché il sistema Italia nel suo complesso, sia nel pubblico che nel privato, negli ultimi decenni non è stato in grado di evolversi come è avvenuto negli altri Paesi: in altre parole i bassi stipendi italiani sono lo specchio dell’economia del Paese, così come la nostra sgangherata politica è lo specchio della nostra società.
Capite bene che uscire da questo “cul de sac” non sarà agevole per alcun Governo.
Certo però che se dalle parole, dai proclami, dalle vane promesse elettorali, si passasse ai fatti non sarebbe male.
Ma bisogna essere consci che non sarà un processo né veloce né agevole.
Umberto Baldo