TEATRO – All’Astra in scena ‘Il libro del buio’
Venerdì 10 aprile al Teatro Astra di Vicenza l’anteprima de “Il libro del buio”, il nuovo lavoro della compagnia ATIR dall’omonimo romanzo dello scrittore marocchino.
Due dei più bei nomi della nuova scena italiana, Tindaro Granata e Serena Sinigaglia, e le pagine di Tahar Ben Jelloun, lo scrittore marocchino più famoso e tradotto all’estero, celebre per le sue opere sui temi del razzismo, dell’immigrazione e dell’esilio: così nasce “IL LIBRO DEL BUIO”, che sarà presentato in anteprima in forma di mise en espace venerdì 10 aprile (ore 21) al Teatro Astra di Vicenza. Nel pomeriggio (ore 18.45) al Bcinquantacinque Granata e Sinigaglia incontreranno i partecipanti al percorso formativo de La Piccionaia “Teatro Sociale e di comunità”.
L’evento è l’ultimo in abbonamento per la rassegna “Terrestri 14/15” curata da La Piccionaia per il Comune di Vicenza con il sostegno di Ministero dei Beni Culturali, Regione Veneto, Provincia di Vicenza, Circuito Teatrale Arteven e Askoll.
L’allestimento, che debutterà nei prossimi mesi all’interno del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, nasce dall’omonimo romanzo del 2001 che si ispira ad una delle pagine più tragiche della storia marocchina, consumatasi durante il regime di Hassan II. Il 10 luglio 1971 un commando militare irruppe nella residenza estiva del dittatore a Skhirate per tentare il colpo di stato; ma fallì, e i militari che avevano preso parte alla missione vennero condannati ad una lunghissima pena detentiva nella prigione sotterranea di Tanzmamart. Diciotto anni senza mai vedere la luce del sole, in condizioni fisiche disumane. Proprio sulla testimonianza di uno dei cinque sopravvissuti si basano le pagine di Ben Jelloun, che nel 2004 sono valse all’autore l’International IMPAC Dublin Literary Award e che trovano ora una forma scenica grazie alla regia della pluripremiata Sinigalia per la compagnia A.T.I.R. Sul palco, il giovane attore-rivelazione siciliano Tindaro Granata è Salim, il narratore, che con l’aiuto delle scene di Stefano Zullo, dei costumi di Giada Masi e delle luci di Sarah Chiarcos porta con sé lo spettatore dentro a quella cella troppo piccola perfino per il proprio corpo, a mangiare legumi e pane secco due volte al giorno, nelle tenebre di una notte senza fine. Una discesa negli inferi della disperazione che però, lentamente, conduce ad un germe di purezza assoluta. Perché da quel buio Salim riesce a riemergere: innanzitutto, smette di odiare, perché in quelle celle si muore di odio prima che di consunzione; poi smette di sperare, cioè di desiderare ciò che non può avere. Ma soprattutto, in quella condizione di estrema impotenza fisica, Salim si aggrappa all’infinità degli spazi dentro di sé: alle storie che ha imparato fin da piccolo, ai libri che ha amato per tutta la vita, alle parole che ha appreso nel corso dei suoi studi. Il pensiero e la cultura diventano così potenti alleati contro la morte e il degrado, frammenti di una bellezza, disinteressata e libera, che sola può salvare lui e i suoi compagni di detenzione.
“Leggere ‘Il libro del buio’ è un’esperienza particolare – spiega Serena Sinigaglia -. Il corpo di Salim, privato di tutto, isolato, straziato da malnutrizione, freddo, scarafaggi e privazioni di ogni genere, diventa anche il nostro corpo. Così la lettura diventa un’esperienza viva, concreta: assomiglia ad un esercizio spirituale. È qualcosa che parla a noi uomini della crisi, ormai sempre più incapaci di riconoscere il giusto valore delle cose. Ma c’è di più: per sete di consumo, per ansia di morte, abbiamo trascurato tutto ciò che è spirituale, che non si può vendere o comprare, e adesso viviamo anni di smarrimento, di solitudine. Non sappiamo pregare, non sappiamo nutrirci di bellezza e con essa salvarci. Per non diventare pazzo, Salim si rifugia nelle storie, nei libri, nei film. Così facendo, ci ricorda che il vero cibo dell’uomo è l’arte, quella vera, capace di ridarti la forza quando tutto il resto è perduto. Il suo racconto è molto più che un atto di denuncia politica e civile: è un racconto di resistenza e di salvezza ad uso di qualsiasi essere umano in difficoltà. E questo lo si deve a Tahar Ben Jelloun, che ha saputo fare di una storia realmente accaduta un racconto eterno per l’umanità”.