Terrificante Iran: in nome di quale Dio si condanna a morte un musicista?
Umberto Baldo
Il 25 aprile, dopo aver letto una notizia, ho sentito l’impellente necessità di postare una mia riflessione su un social network.
La notizia in questione era quella della condanna a morte di un giovane musicista, Toomaj Salehi, il più famoso rapper dell’Iran degli Ayatollah.
E nel post scrivevo che mi sarebbe piaciuto che nel corso di una delle tante manifestazioni per il 25 aprile, Festa della liberazione da barbarie ed oppressione, ci fosse stata almeno qualche voce che avesse protestato per questa condanna ignobile.
Non solo per la pena inflitta, ma soprattutto per il reato che è alla base della stessa: “CORRUZIONE SULLA TERRA”.
L’ho scritto di proposito in lettere maiuscole il capo di imputazione per cui Toomaj rischio di essere impiccato, perché solo una Teocrazia può prevedere un reato di questo tipo.
Ma perché tanto accanimento contro questo ragazzo, perseguitato dal regime da lunghi anni?
Per il semplice motivo che la sua è diventata negli anni la “voce della Rivoluzione”, in particolare quella della “Generazione Z”, quella delle ragazze e dei ragazzi iraniani.
Nelle cuffiette delle ragazze senza velo di Teheran — ma anche di Mashhad e di Isfahan — passano parole come «Il loro crimine è danzare con i capelli al vento/Il coraggio è stato il loro crimine/il coraggio di denunciare i vostri 44 anni di governo”.
Sono le parole delle canzoni di Tooìmaj, che per questo fa paura al regime.
Perché parla una lingua, il rap, che gli ayatollah non solo non capiscono, ma temono.
Fanno paura i suoi milioni di follower, che cantano le sue rime a memoria, e che da tutto il mondo supportano il suo coraggio.
Toomaj ha 33 anni e viene da un villaggio della provincia del Khuzestan, da una famiglia di dissidenti che avevano già conosciuto il carcere.
Probabilmente non immaginava che sarebbe diventato la voce guida della rivoluzione “Donna, Vita, Libertà” quando, nel 2017, iniziò a caricare video su YouTube in cui guardava in camera, negli occhi di Ali Khamenei e dei suoi, sfidandoli con poesie ritmate, che si sono subito trasformate in inni di resistenza.
Lo so che per noi e per i nostri ragazzi è difficile anche solo immaginare che in Iran si vive in un clima di oscuro terrore, che emerge dai racconti sconvolgenti delle organizzazioni per i diritti umani iraniane, che parlano di arresti di giornalisti e attivisti per la libertà di espressione, lasciati morire tra atroci sofferenze dietro le sbarre.
E’ difficile anche solo immaginare l’orrore che si vive nelle terrificanti carceri iraniane, dove durante la detenzione i manifestanti e i dissidenti vengono sistematicamente brutalmente torturati.
Queste torture consistono soprattutto nella violenza sessuale, e molti manifestanti muoiono dissanguati, come è capitato alla giovane Armita Abbasi, 21 anni, arrestata perché manifestava, violentata in prigione, e poi ricoverata per una emorragia rettale.
È stata poi rapita dall’ospedale dalle forze paramilitari per occultarne lo stupro subito.
Lo stesso è capitato a Nika Shakarami, una ragazza di 17 anni, dall’aspetto dolcissimo e pieno di vitalità, rapita dai pasdaran, stuprata per giorni e brutalmente uccisa a Tehran perché si era esibita cantando a capo scoperto durante una manifestazione di liceali in ricordo di Mahsa Amini. Dopo una settimana, il suo corpo è stato ritrovato alla periferia di Tehran con il naso rotto e il cranio fratturato da molteplici bastonate, e con evidenti segni di violenza carnale subita.
Va sottolineato che la violenza sessuale viene praticata sistematicamente anche agli uomini.
Non meraviglia quindi se le canzoni di Toomaj (per il quale la rivoluzione Donna, Vita, Libertà è un “ruggito di mille rabbie e l’espressione delle radici rivoluzionarie di arabi, assiri, armeni, turkmeni, mazni, sistani, beluci, talesh, tat, azeri, curdi, gilak, lur, persiani, qashqai. L’Iran è un insieme di fiumi”) per gli “inturbantati neri” sono come aceto versato su una ferita.
Per i tagliagole che guidano la Repubblica Islamica questo tipo di messaggio è del tutto inedito e dirompente.
Soprattutto perché è un messaggio che sta unendo centro e periferia con slogan molto eloquenti: “Curdi, beluci, baha’í, azeri, bakhtiari, libertà e uguaglianza” e il motto “Donna, Vita, Libertà” equivale a rivendicare “Democrazia, laicità, diritti civili e diritti delle minoranze”.
E di minoranze oppresse in Iran ce ne sono tante, a partire dai Curdi.
«Non hai notato con quanta crudeltà le tue guardie picchiano le donne?/ Forse sei terrorizzato dalle madri iraniane/Sono gli dei che creano persone come me/Tu sei il nemico dell’umanità ed io sono il tuo nemico”; queste alcune strofe di “Faal”, che in italiano potremmo tradurre con “destino”, scritta e cantata da Toomaj.
E’ evidente che è proprio questo carattere della rivoluzione dei ragazzi, quello che passa attraverso le parole delle canzoni, che i giovani cantono, ascoltano, e diffondono, che ha fatto letteralmente impazzire il regime, oltretutto alle prese con una terribile crisi economica interna, e con lo scontro a distanza con Israele.
Lo avevamo già visto.
Toomaj non è il primo musicista a finire sotto il tritacarne della polizia morale islamica. Toccò anche a Shervin Hajipour, un altro cantante iraniano, arrestato dopo aver pubblicato una canzone diventata anch’essa un inno delle proteste contro la repressione in Iran,scaturite dalla morte di Mahsa Amini . Il brano è un collage di tweet scritti dai sostenitori della libertà in Iran, pubblicati sotto l’hashtag diventato virale dopo la morte della ragazza curda. Si chiama: “Baraye…” – “Per…”, e lo trovate in rete (ascoltatelo, https://www.youtube.com/watch?v=SmHpGpcADbI ve lo consiglio).
Da quanto trapela, il Regime iraniano, nonostante il terrore e le nefandezze, fa molta fatica a imporre il rispetto dell’odioso codice di abbigliamento; le donne sono disposte a sacrificare la loro vita per difendere la propria dignità e la propria libertà, ed escono di casa con i loro capelli al vento, pur sapendo che possono anche non farvi ritorno, ed essere arrestate, torturate o stuprate.
Concludendo, guardando alla storia si può rilevare che la musica, il canto, rappresentano spesso lo sfogo di un popolo oppresso.
Lo aveva ben capito ad esempio Giuseppe Verdi, quando offrì agli italiani del Risorgimento il “Và pensiero” in cui il Coro del Nabucco intona “O mia Patria si bella e perduta…” per la “gioia” degli occupanti austriaci.
E a maggior ragione lo furono il “Work Song” ed il “Blues”, le forme musicali in cui si rifugiarono i neri americani durante la schiavitù.
In realtà la musica, a ben guardare, rappresenta sempre un popolo, ma in certi momenti particolari ne mette a nudo l’anima.
Io penso che un regime che ha paura delle canzoni è arrivato ad un punto di non ritorno, al capolinea.
E quindi spero ardentemente che la condanna a morte di Toomaj Salehi per “Corruzione sulla terra” rappresenti per gli Ayatollah il suono della campana dell’ultimo giro.
Umberto Baldo