17 Aprile 2025 - 10.39

Trump 2: un freak show terrorizzante


di Alessandro Cammarano

Pensavamo sarebbe piovuto, ma non grandinato a chicchi grossi come palle da baseball; si sapeva che se il tycoon – per altro plurifallito – fosse tornato alla Casa Bianca non avrebbe fatto prigionieri.

In puto stile Al Capone, personaggio che tra l’altro ha dichiarato più volte di ammirare, Donald Trump in poche settimane ha trasformato gli Stati Uniti da paese guida a stato canaglia, taglieggiando – salvo poi fare marcia indietro poche ore dopo – i partner commerciali, limitando la libertà di pensiero, Harvard e la Columbia University ne sanno qualcosa, azzerando l’amministrazione pubblica e deportando allegramente gli immigrati non solo irregolari come se fossero terroristi e rifiutando di applicare sentenze della Corte Suprema da lui ritenute, nel suo eloqui da terza elementare, “very very bad”.

Ovviamente Trump non è solo in questo suo scardinamento alle radici degli USA come li abbiamo conosciuti non è solo, anzi. Il circo di “fenomeni” di cui si è circondato ricorda quelli di un Caligola qualunque o di un Sardanapalo di borgata.
Comunque, sono tutti pericolosissimi perché, si sa: in ogni saga che si rispetti, la qualità non migliora, ma il grottesco aumenta esponenzialmente. E siamo passati da “House of Cards” a “Scemo & più Scemo – La vendetta”.

Vale dunque la pena di dare un’occhiata da vicino al freak-show che anima lo Studio Ovale, anch’esso riarredato in stile Casamonica.

Partiamo dal vicepresidente J.D. Vance – il “maschione” col kajal – un uomo che un tempo definiva Trump un “cancro per la democrazia” e oggi lo guarda come un discepolo guarda il suo guru, o come un venditore di anime guarda il miglior offerente.
Da autore introspettivo a marionetta del trumpismo, è riuscito a fare un triplo salto carpiato nel baratro dell’opportunismo, lasciandosi alle spalle dignità, coerenza e verosimilmente anche l’autostima. La sua autobiografia ora potrebbe intitolarsi “Hillbilly 2: Cronache di una svendita”.

A seguire troviamo Elon Musk, l’imprenditore-genio-meme vivente e tossicodipendente dichiarato, che dopo aver colonizzato lo spazio ha deciso di colonizzare anche la sanità mentale collettiva, comprando Twitter (ops, “X”) e facendolo diventare un Far West digitale dove la disinformazione galoppa libera e impunita.
Musk è riuscito a rendere il concetto di “libertà di parola” sinonimo di libertà di sproloquio, un Truman Show dell’ego senza regia; se Orwell avesse immaginato un vilain da tastiera col jet privato, avrebbe avuto in mente lui.

Poi c’è Robert F. Kennedy Jr., il complottista con pedigree, l’erede problematico di una dinastia gloriosa, un nome importante, un cervello in fuga dalla realtà, con destinazione finale: “terra piatta”. Il suo superpotere? Trasformare ogni dato scientifico in una cospirazione mondiale, ogni medico in un emissario di Big Pharma, ogni siringa in una minaccia esistenziale.
Perfetto per un’amministrazione dove la verità non solo non conta, ma anzi disturba attivamente il flusso delle fake news.

E che dire dell’agghiacciante Kristi Noem, segretaria alla Sicurezza, già governatrice del South Dakota e cosplay permanente di cowgirl apocalittica, che ha recentemente rivelato con orgoglio di aver sparato al proprio cane, perché nulla dice “leadership compassionevole” come risolvere i problemi domestici a colpi di piombo.
La sua biografia, più che un curriculum politico, sembra la sceneggiatura di un episodio scartato di Black Mirror, scritto da un contadino della corn-belt sotto acidi.

Pam Bondi, ex procuratrice generale della Florida e oggi Attorney General, il cui talento principale è farsi trovare sempre nella posizione perfetta, ovvero davanti alla telecamera. Le sue apparizioni televisive hanno il rigore argomentativo di un reality trash, con la stessa profondità di una citazione su una tazza da caffè. Se fosse un’influencer, venderebbe crema antirughe con l’efficacia con cui difende Trump: con entusiasmo, ma senza alcuna prova.

A capo del Pentagono troviamo – venghino, venghino! – Pete Hegseth, volto rassicurante per chi crede che la storia si impari meglio leggendo i meme di Facebook; l’uomo dai tatuaggi imbarazzanti porta avanti un patriottismo da baraccone, tutto muscoli e bandiere, zero contenuti se non quelli razzisti. Ah… en passant è pure accusato di molestie sessuali, ma questo nell’amministrazione Trump è un punto di merito.
Il suo concetto di cultura politica è un mix tra “Forrest Gump” e un raduno dei Proud Boys e ogni suo intervento televisivo è un esercizio di ginnastica mentale per lo spettatore: serve un salto mortale per trovare un senso a quello che dice.

Chris Wright, segretario all’energia, consigliere improvvisato con la stessa autorevolezza di un commentatore sotto un video di TikTok.
Nessuna competenza, ma un’invidiabile capacità di sintetizzare il pensiero MAGA in 280 caratteri e una gif patriottica: è l’uomo giusto per una politica che non cerca soluzioni, ma solo applausi e indignazione istantanea.

Tulsi Gabbard, ex democratica, ex pacifista, ex razionale e oa sacerdotessa di un trumpismo mutaforma, pronta a reinventarsi a ogni cambio di vento ideologico; da neocapo dei Servizi di Sicurezza – la CIA, per intenderci – un giorno parla di pace, il giorno dopo loda dittatori con lo stesso candore con cui si parla del tempo. La sua identità politica è un origami: complessa, piegata in tutte le direzioni, e incredibilmente pericolosa.

Abbiamo tenuto per ultimo Peter Navarro aka Ron Nava, l’economista scovato su Amazon da Jared Kushner e che è l’uomo che ha trasformato il protezionismo in una religione personale e le teorie economiche in pamphlet da bancarella del complotto.
Autore di libri che neanche sua madre ha finito di leggere, Navarro ha passato gli ultimi anni a rimbalzare tra apparizioni televisive surreali e tribunali molto reali, sempre con lo sguardo fisso e l’aria di chi è convinto che il mondo sia contro di lui perché non capisce il suo genio incompreso. È riuscito nell’impresa di portare la politica commerciale americana a un livello tale di confusione che anche un doganiere di frontiera si sentirebbe smarrito. Per lui, ogni dazio è una crociata, ogni partner commerciale un nemico e ogni microfono una possibilità di dire qualcosa di profondamente sbagliato con enorme sicurezza. Un talento raro, insomma.

Insomma, il “dream team” trumpiano si arricchisce di giorno in giorno: una sfilata di estremisti, carrieristi, teorici del nulla e predicatori dell’assurdo, un circo itinerante dell’incapacità vestita a festa. Ogni nuovo ingresso è un colpo di scena al ribasso, una nuova tacca sull’asticella morale che ormai è sepolta sei piedi sottoterra. Se la precedente amministrazione Biden era, secondo alcuni, un disastro, questa è un reboot post-apocalittico scritto da uno sceneggiatore sotto acidi e approvato da un algoritmo impazzito.

Che dire? Se l’America voleva un governo che sembrasse scritto da uno sceneggiatore ubriaco di Netflix la missione è senz’altro compiuta. E siamo solo all’inizio della stagione.

VIACQUA

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