Vaccinocrazia all’italiana e l’odiosa lotteria dei colori il venerdì
di Umberto Baldo
Credo ci siano poche persone in Italia che non seguano sui media l’andamento dell’epidemia da Covid-19, anche perché, a dircela tutta, siamo quotidianamente subissati da una vera e propria valanga di notizie.
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere che sabato scorso in Inghilterra il servizio sanitario è riuscito ad inoculare 844.285 dosi di vaccini in 24 ore. Vale a dire che quel giorno hanno vaccinato l’ 1,3% della popolazione, al ritmo di 27 vaccini al secondo.
Di fronte a questi dati non stupisce che nel Regno Unito il 54% della popolazione adulta, quindi ben 28 milioni di residenti, abbia ricevuto almeno una dose di vaccino.
So già che qualcuno di voi starà pensando: bella forza, loro i vaccini li hanno!
Sicuramente è vero, e non è un vantaggio da poco, se raffrontato con le difficoltà di approvvigionamento in cui, per evidenti responsabilità e ritardi della Ue, si dibattono i Paesi europei.
Ma onestamente questo argomento non mi convince del tutto, soprattutto alla luce delle cronache che riferiscono della confusione che regna sovrana nel nostro Paese.
Approfondendo un po’ l’argomento “campagna vaccinale”, a parte le figuracce di molte Regioni relativamente alle convocazioni dei cittadini da vaccinare, sulle quali magari tornerò più avanti, da molti operatori si lamenta l’eccesso di passaggi burocratici per arrivare alla mitica “puntura”.
Un medico vaccinatore, uno fra i tanti eh, ha così riassunto il problema “Troppa burocrazia, ci vogliono 30 minuti solo per riempire scartoffie, contro i 15 secondi, 15, necessari per l’iniezione”.
C’è da dire che il medico in questione si riferiva al tempo necessario per vaccinare un 80enne nella sua abitazione, ma essendo l’Italia notoriamente la Repubblica della carta, dei timbri e delle firme, non stupisce che i tempi siano dilatati anche nei centri vaccinali.
Mi sono quindi preso la briga di andare a consultare sul sito della sanità inglese NHS (National Healt Service) il modulo che il vaccinando deve sottoscrivere (denominato COVID-19 vaccination consent form).
Sono poi andato a guardare, sempre in Rete, l’analogo modulo che deve essere obbligatoriamente firmato dagli italiani per poter ricevere il vaccino.
Sapete qual è la differenza?
Il modulo inglese è un solo foglio A4, dove di fatto devono essere indicati solo i dati anagrafici, quello italiano consta di ben 14 fogli A4, riportanti non solo il consenso informato, ma anche la scheda di anamnesi, che il vaccinando deve compilare rispondendo alle domande specifiche sulla sua storia clinica e sullo stato della sua salute.
Se permettete non è una differenza da poco, non solo perchè impatta negativamente sui tempi di erogazione dei vaccini (pensate solo alle difficoltà degli anziani per compilare i moduli) ma soprattutto perchè dimostra la differenza abissale che esiste fra i due sistemi sanitari.
In Italia, e lo dice a malincuore uno che ha sempre creduto nel federalismo, siamo riusciti nell’impresa di creare 20 repubblichette autonome, le Regioni, che vanno ognuna per conto proprio perchè seguono regole diverse, i cui sistemi informatici non dialogano fra loro, con la conseguenza che il livello di qualità dei servizi erogati alla popolazione varia profondamente da zona a zona.
Per non dire che, quanto a digitalizzazione, molte sono quasi all’anno zero, e l’anagrafe vaccinale è, a parte in qualche Regione come il Veneto, un miraggio.
E non è quindi un caso che un po’ tutte le Regioni siano in affanno con l’organizzazione e la gestione della campagna dei vaccini; e code, ritardi, disguidi, sono comparsi anche in una Regione come la nostra, che all’inizio della pandemia era considerata un modello.
Per contro, in Inghilterra tutto è digitalizzato. Dal momento in cui uno nasce, o arriva nel Regno Unito, il medico di base compila subito un file elettronico con tutti i dati di salute e le malattie pregresse del paziente, condivisi nel database nazionale della NHS. Capite bene che, con questo livello di organizzazione, è stato un gioco da ragazzi individuare subito i cittadini e le categorie fragili, invitandoli per la somministrazione con un sms, una telefonata, o una lettera, che in Inghilterra arriva sempre puntuale. Risultato: il 95% degli over 65 ha già ricevuto almeno una dose.
Per non dire che, dal punto di vista dell’organizzazione, Boris Johnson ha messo a capo dell’operazione Sir Simon Stevens, il capo della NHS, che ha subito mobilitato e organizzato i medici di base, con l’obiettivo minimo di vaccinare 12 ore al giorno, 7 giorni su 7. Logisticamente sono poi stati attivati maxi centri, e si sono utilizzati stadi, cattedrali, chiese, teatri, supermercati.
Il tutto mentre da noi il Commissario all’emergenza Covid Domenico Arcuri si baloccava con le “Primule”, i padiglioni vaccinali ideati da Stefano Boeri, al modico costo di 1.300 euro al metro quadrato, vale a dire 409mila euro a padiglione. D’altronde, siamo o non siamo un Paese di esteti?
Fortuna che alla fine è prevalsa la logica, o forse il pudore, e le Regioni le “Primule” le hanno rifiutate.
Da rimarcare poi che, nel Regno di Sua Maestà Britannica si è seguito unicamente il criterio dell’età anagrafica.
Nell’ italica Repubblica, o forse meglio dire nelle 20 repubblichette regionali, siamo riusciti a realizzare il paradosso delle “categorie a rischio”, una trovata, o una furbata, in base alla quale sono stati privilegiati avvocati, magistrati, amministrativi, e chi più ne ha più ne metta, trascurando gli over 75, proprio quelli che, statistiche alla mano, la vita la rischiano davvero.
Se il premier Mario Draghi parlando in Parlamento si è sentito in dovere di mettere il dito su questa piaga, evidentemente aveva le sue ragioni, e quindi ha fatto bene ad annunciare che “Il Governo renderà pubblici tutti i dati sui vaccini, sul sito della Presidenza del Consiglio, Regione per Regione, categoria di età per categoria di età”. Così almeno noi cittadini avremo dei dati raffrontabili a livello nazionale, e saremo quindi in grado di valutare la capacità e l’impegno dei vari “Governi regionali”.
Adesso sembra che anche in Italia l’unico criterio per la somministrazione dei vaccini sarà quello dell’età anagrafica, ma come accennavo sopra, il problema vero sarà ancora quello dei livelli di informatizzazione della PA, che rendono difficoltosa anche la convocazione dei cittadini, tanto da arrivare al paradosso che in Veneto nei giorni scorsi è stato invitato a presentarsi un cittadino morto da sei anni.
Mi auguro di sbagliarmi, ma credo che l’obiettivo dei 500mila vaccinati al giorno prefissato da Mario Draghi rischi di restare una chimera, se non si interverrà anche sull’iter burocratico attualmente previsto, alleggerendolo.
E’ logico pensare di interloquire con fette di popolazione anziana, minimamente digitalizzata, continuando a colpi di 14 fogli A4 da leggere e compilare?
Questo non è un tempo normale! Questa è un’emergenza planetaria, e continuare ad andare avanti con le carte, con i bolli, con i timbri, sarebbe come se una persona che sta letteralmente morendo di sete, di fronte ad una bottiglia d’acqua si preoccupasse del residuo fisso.
Non è più il tempo di una burocrazia che combatte il Covid-19 con i moduli e le autocertificazioni.
Che sanno tutti che non verranno letti da nessuno, ma che rispondono all’unica esigenza di “pararsi il culo”, di togliersi le responsabilità facendole assumere al cittadino che firma.
Capisco che in questo Paese di azzeccagarbugli un operatore sanitario si senta sempre a rischio; perchè sa che qualora qualcosa non vada per il verso giusto, la causa per risarcimento, l’avviso di garanzia, sono sempre dietro l’angolo.
Ma è proprio qui che lo Stato deve intervenire con la sempre promessa riforma della burocrazia e della PA. Una riforma che, pur tutelando i dipendenti pubblici da rischi non dipendenti dalla propria volontà, cambi la prospettiva di una burocrazia che sembra aver perso di vista l’obiettivo del servizio al cittadino, per limitarsi troppo spesso alle soluzioni formali, cioè a “tenere le carte a posto”.
In questo bailamme un discorso a parte, anche se il collegamento con la disorganizzazione generale è evidente, merita la suddivisione dell’Italia in zone a colori. Abbiamo già scritto giorni fa sull’incongruità di questo sistema che sembra più ispirarsi all’arte ed alla “cromologia”, che ad una gestione razionale delle limitazioni connesse alla pandemia.
Il fatto che nessun Stato europeo abbia adottato una simile “pensata” la dice lunga sulla sua utilità. Non è possibile, non è razionale, non è produttivo, che intere Regioni siano appese ad un algoritmo che nessuno ha mai visto. Non è possibile che il venerdì sia diventato il giorno in cui si “estrae la lotteria dei colori”, con tanto di pronostici sui media nei giorni precedenti. Non è possibile che intere economie dipendano da un fato incombente, com’era nelle tragedie greche.
Suvvia, siamo seri! In tutta Europa hanno chiuso, riaperto, richiuso, senza colorare alcunchè. Semplicemente con una corretta comunicazione ai cittadini; evitando di costringerli a girare come da noi avendo in tasca il manuale del “Cosa posso fare in zona rossa…arancione…. gialla?”