11 Novembre 2013 - 12.43

VENETO CRIMINALE- Come la ‘Ndrangheta entra nelle aziende del Veneto.

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Intervista esclusiva di Alessandro Ambrosini a chi ha resistito ed ha vinto contro le sirene mafiose

Lo sguardo della persona seduta davanti a me è tranquillo . E’ uno sguardo perbene. Ha superato da poco la settantina ma ha ancora la fisicità di chi è abituato a lavorare tutti i giorni nella propria azienda, con mani che raccontano ore davanti a macchinari imponenti, prima in Germania e poi in Veneto. Made in sud, dalla provincia di Potenza è andato a 16 anni a lavorare a Francoforte per poi scegliere il lembo di terra tra Vicenza e Verona per costruire il suo futuro. Non diamo il nome e non lo chiameremo in nessun modo, una richiesta comprensibile visto la storia che tratteremo con lui.
La presenza della ‘ndrangheta al Nord, e nel Veneto in particolare, è sempre stata silenziosa. Discreta e imprenditoriale. Traffico di stupefacenti, armi ma soprattutto riciclaggio di denaro sporco, ricerca continua di creare strutture economiche all’apparenza pulite. Senza competenza ma con il potere del denaro, fiumi di denaro. E’ così, che dai primi anni ’80 alcune cosche iniziano a guardare il territorio della Serenissima con particolare interesse. Migliaia di piccole aziende crescono velocemente, con numeri percentuali a due cifre. Numeri che corrispondono a tenacia, dedizione e competenza. Tutte parole che per le mafie si traducono in “nuove miniere umane” da avvicinare, da “aiutare”, da sfruttare e successivamente da distruggere.
Sentiamo dalle parole di questo uomo come operava ed opera la ‘Ndrangheta con le aziende in Veneto.

Quando è venuto in Veneto ad aprire la sua azienda ?

Primi anni ’80, con quello che avevo guadagnato in Germania e con un mutuo ho avverato il mio sogno. Le banche, allora, finanziavano veramente chi voleva fare impresa. C’era lavoro per tutti e futuro era una parola vera. Giravano tanti soldi e tante commesse, soprattutto dall’estero. Ma anche tanta gente torbida.

In che senso?

Nel senso che c’era chi lavorava e chi si aggirava come iene intorno all’animale ferito. Capitava di essere a corto di liquidità o di voler espandere l’azienda e c’era chi si proponeva di risolvere i problemi con prestiti capestro. A tassi usurai o con la cessione di una quota dell’azienda stessa. Ma succedeva anche, come al sottoscritto, che vedendo l’azienda ben avviata si proponessero come soci di capitale, in modo pressante. Facendo visite quotidiane, arrivando a minacce velate. Erano calabresi, senza nessuna conoscenza del settore.

Volevano imporre la loro presenza quindi. Ma a che fine? Rientra nella normalità entrare in quota in una azienda.

Si, è nella normalità fino a quando non la cannibalizzano per accaparrarsi quote su quote e alla fine estrometterti facendola diventare una scatola vuota, da usare per imbrogli e truffe.

Intende dire che c’era gente che acquisiva aziende per farle fallire?

Questi avevano capitali da investire, capitali di cui non si sapeva la provenienza. Ho visto altre aziende accettare i loro compromessi e finire con i libri contabili in tribunale o chiuse dalla Guardia di Finanza. Con una mano ti davano e con l’altra ti preparavano la corda per impiccarti. Se poi lavoravi con l’estero l’interesse era doppio perché in quel modo, tramite un giro di fatture ripulivano i capitali stessi che apportavano all’azienda. Un doppio servizio in cui il titolare diventava una marionetta.

E per entrare in queste aziende che metodi usavano? Con lei come hanno provato a entrare nella sua azienda?

I metodi erano due: o con le buone, proponendosi come “salvatori” e finanziatori o con metodi poco ortodossi. Metodi che al sud ho visto spesso mettere in atto: minacce , continue visite sempre meno cordiali, furgoni o camion che spariscono o vengono bruciati. Non tutti resistono a questo calvario.
Io sono stato fortunato, sono venuti parecchie volte al capannone ma sia io che il mio socio abbiamo sempre trovato il modo di far capire che non ci serviva nulla. Determinazione e la fortuna di non aver bisogno di questi personaggi. Venivano da Reggio Calabria e parlavano sempre di interessi che trattavano per conto di altri, «gente potente» dicevano, «gente che poteva darci tranquillità e sicurezza». Poi , come sono comparsi sono anche spariti. Qualcuno che conosco è caduto nella loro rete e dopo 12 mesi ha lasciato l’azienda. E non mi chieda nomi. Non li farò per rispetto di chi è stato vittima di tutto questo e vuole vivere una pensione tranquilla.

Si può denunciare però

Si, dovrebbero farlo tutti. Ma la paura ha il suo peso, l’ha avuto e ancora c’è, anche se qualcosa è cambiato. Non è solo un problema di ritorsioni personali, è anche avere la responsabilità dei lavoratori e delle loro famiglie.E loro lo sanno bene.

Se dico ‘ndrangheta non sbaglio

No, se dice ‘ndrangheta li chiama con il loro nome. Vengo da terre di ‘ndrangheta e conosco i loro metodi. La Basilicata è una provincia della ‘ndrangheta e il Veneto è una delle loro colonie.

Oggi, come vede la situazione da questo punto di vista? Gli arresti e le condanne in Piemonte e in Lombardia dovrebbero essere esempi anche per chi ha paura o sbaglio?

Non sempre quello che si vede o si legge si percepisce nel modo giusto. Per chi è abituato ad accendere i macchinari ogni giorno, per chi aspetta i camion arrivare per caricare il materiale non cambia niente se a Milano arrestano certi personaggi. Cambia tutto quando vedi bruciare un furgone, quando ti tagliano le gomme dei camion. Quello si percepisce bene, meglio di tutto e soprattutto oggi con questa crisi. Ma non bisogna arrendersi a questi sciacalli, che siano della ‘ndrangheta o della mafia. Chi si presenta alla tua porta non vuole solo il tuo lavoro, sudato in migliaia di ore, vuole anche la tua dignità.
Quella volta, io e il mio socio veneto non abbiamo dato niente di tutto ciò. Resistere a false sirene si può, si deve.

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