Viaggi in treno, tra odori e umori
di Alessandro Cammarano
Bei tempi quando a viaggiare erano solo i “signori”, ovvero quelli che si potevano permettere – per cultura e censo – treni di lusso e transatlantici elegantissimi nonché di poter essere tra i privilegiati poter prendere un aereo in un epoca nella quale spostarsi volando era davvero per pochi.
Tranquilli: è una battuta.
Non sono un Alain Elkan dei poveri – non possiedo un vestito stazzonato e i Lanzichenecchi non mi spaventano – e non voglio essere preso a mazzate dal viaggiatore medio; però non si può negare che muoversi da un posto all’altro è oggi, e per fortuna, è sì alla portata di tutti, ma allo stesso tempo non si può non sottolineare che la qualità dei passeggeri sia parecchio peggiorata.
Chi scrive viaggia parecchio e ciò che vedo è spesso tragicomico, nonché specchio di una società che fa della stupidità e soprattutto dell’arroganza un vessillo da ostentare con orgoglio.
Oggi ci dedichiamo ai treni.
Sui famosi regionali, che per altro sono oramai esteticamente parecchio gradevoli, si viaggia come in una latta di sardine e anche nel caso, rarissimo, che si riesca a trova un posto a sedere non è detto che il tragitto prosegua tranquillo.
Il cicloturista, generalmente vestito come Totò e Peppino quando dal paese arrivano a Milano, pretende di infilare il suo velocipede ipertecnologico in uno spazio in cui non entrerebbe nemmeno un triciclo e che soprattutto è già intasato di passeggini e monopattini.
Già… i monopattini – per inciso ci vorrebbe un girone infernale riservato a chi li ha riportati in auge – attrezzi infernale che in movimento rischiano di portarsi davanti qualsiasi cosa, dalla vecchia che attraversa sulle strisce al passante che procede sul marciapiede, ma che in treno diventano un oggetto di tortura, secondo solo alla Vergine di Norimberga, capace di massacrare stinchi e massacrare ginocchia.
Però la palma della stupidità ferroviaria va ai viaggiatori che usano i treni ad alta velocità: qui la demenza si manifesta prepotente.
Il posto riservato è chiaramente indicato sul biglietto, il numero della carrozza è scritto a caratteri cubitali, eppure la manager “distratta” o il professionista rampante è sempre in agguato e vuole il proprio il vostro.
Generalmente lo si trova già accomodato, e con tanto di laptop già acceso.
Se glielo si fa notare risponde seccato “il 12 D è MIO”, al ché gli si domanda cortesemente ma non troppo “Certo, ma di quale carrozza?”.
A questo punto il castello crolla perché il suo 12 D è due vagoni più avanti e il peracottaro è costretto a battere in ritirata.
Terribili anche le sciure che ammanniscono all’universo le loro idiotissime conversazioni diffuse ad un volume da rave.
C’è poi la categoria dell’occupatore seriale, ovvero quel personaggio che sale sul treno con trolley e zainetto che trovano posto uno sul sedile di fronte a dove il losco ha poggiato le sue auguste chiappe e l’altro giusto accanto.
Guai a chiedergli dì spostarli: si viene immediatamente investiti da una serie di contumelie da osteria condite con frasi del tipo “io il biglietto l’ho pagato, sa?”, o peggio “non sono affari suoi”.
Ogni tanto trovano qualcuno più attaccabrighe di loro che gli fa sanguinare il naso. Per fortuna.
Ho tenuto per ultimi i peggiori, ovvero quelli che si tolgono le scarpe.
Non c’è età o sesso, il piede fetido è assolutamente democratico in questo.
Si trova il giovane turista straniero che dorme in ostello da settimane senza aver mai visto una doccia: se le ascelle gridano i piedi ululano.
Simile a loro l’anziano che tolti i mocassini esibisce un pedalino in teoria bianco ma nella realtà color nocciola pallido dal quale si levano minacciosi fumi mefitici tali da fare impallidire anche lo stomaco più forte.
Sempre più rari, per fortuna, i consumatori del più terribile tra gli spuntini da treno: la combinazione panino con mortadella seguito da banana strafatta.
Qui siamo nel campo delle armi chimiche; roba che al cospetto di questo orrore anche le armate di Gengis Kahn avrebbero alzato bandiera bianca.
Che ci crediate o no sto per salire in treno: che il cielo mi aiuti.