Vladimir l’Africano
Non so a voi, ma a me il solo guardare la zona evidenziata in giallo sulla carta geografica sotto il titolo mi provoca dei brividi lungo la schiena.
E non a caso parto da una cartina, perché ricordate sempre, e ditelo ai vostri ragazzi, che “non esiste la storia senza la geografia”, ed è con immensa tristezza che costato che si tratta di due materie sempre più trascurate nel corso della formazione scolastica nel nostro Paese.
E relativamente al tema di oggi, questo correlazione è ancora più evidente, perché quella zona gialla che collega il Senegal all’Eritrea costituiva un tempo il cuore dell’impero coloniale francese nel Continente africano.
Solo per chi magari ha dimenticato quanto studiato a scuola, giova ricordare che la Francia occupò l’Algeria nel 1830, per annetterla al territorio metropolitano, e nel corso degli anni estese anche la sua influenza in Tunisia nel 1881 stabilendovi un protettorato. All’inizio del governo del futuro imperatore Napoleone III fu stabilito un presidio commerciale e coloniale in Senegal e fu occupata anche l’isola del Madagascar. Divennero in seguito colonie transalpine i territori oggi appartenenti agli attuali Mauritania, Guinea, Mali, Costa d’Avorio, Benin, Niger, Ciad, Repubblica Centrafricana, Gabon, Camerun; e fu stabilito un presidio nel Corno d’Africa, a Gibuti. Pietro Savorgnan di Brazzà, esploratore italiano, in nome di Parigi prese invece possesso del Congo.
Non ho alcuna intenzione di soffermarmi sulla storia del colonialismo, che tanto inquieta la società americana, ed anche europea, risvegliando sentimenti di colpa.
Basti dire che l’approccio post-coloniale francese ed inglese furono molto diversi; nel senso che la Gran Bretagna rinunciò a gran parte del controllo politico delle ex colonie, per garantirsi invece un dominio economico legando questi Stati nel Commonwealth; mentre la Francia, la cui politica mirava ad assimilare le colonie in una “grande Francia” reagì sempre alle tendenze autonomiste con una dura repressione.
Fatto sta che, anche dopo l’indipendenza delle ex colonie, la Francia tentò di mantenere un legame osmotico, a cui, soprattutto dopo la scoperta di risorse strategiche e il declino dell’Eurocentrismo, Parigi non ha voluto rinunciare, rendendo spesso il processo di decolonizzazione solo formale.
E’ questa in estrema sintesi la storia politica della cosiddetta Francafrique, la cui materializzazione è stata resa possibile grazie al divide et impera, cioè strumentalizzando le rivalità interetniche e interreligiose che animano le multi-nazioni artificiali del continente; alla corruzione; a pratiche di colonialismo informale; a una rilevante dose di potere morbido: alla laica francofonia come collante di popoli, unitamente alla moneta delle ex colonie, il cosiddetto Franco della Comunità Finanziaria Africana (Cfa).
A proposito della spesso citata “teoria del caos” di Edward Lorenz, non c’è dubbio che con lo scoppio della guerra in Ucraina (che vi ho sempre detto segnerà un “prima ed un dopo” nella storia), Occidente e Russia si stanno confrontando anche per la conquista di cuore e menti dei popoli (e degli Stati) africani.
Ed è logico che sia così, perché quando un impero (e la Russia di Putin è convinta di esserlo) scende in guerra, le conseguenze generate da questo fatto non possono essere né limitate né circoscritte al suo “estero vicino” o al suo nemico diretto, ma ricadono anche sulle aree più lontane sulle quali l’impero aspira ad esercitare la sua influenza, e su quelle controllate dalle potenze rivali.
Di conseguenza, anche se l’attuale disastro francese nel Sahel non è direttamente imputabile alla guerra d’Ucraina, indubbiamente essa ha contribuito a far esplodere con grande virulenza un sentimento covato da tempo nei territori dell’ex Impero coloniale francese.
Da qui il costituirsi dell’area gialla cui accennavo all’inizio, con i colpi di stato in Guinea, Mali, Burkina Faso, Gabon, Ciad, e Sudan, aventi come protagonisti militari formati in Europa e negli Usa, ma legati dal comune denominatore dell’odio anti-francese, confermato anche nell’ultimo golpe, quello avvenuto di recente in Niger; particolarmente grave perché questo Stato costituiva l’ultimo presidio occidentale nel Sahel (il deposto Presidente Bazoum è stato l’unico ad aver deciso di accogliere i francesi in ritirata dal Mali, e l’unico che dialogava con l’Europa e con gli Stati Uniti).
In politica ogni spazio lasciato vuoto da qualcuno viene riempito da “qualcun altro”, e quindi dopo la cacciata dei francesi (e delle loro truppe) il vuoto nel Sahel doveva necessariamente essere colmato dalla comparsa di altri attori.
E di questo ne sta approfittando Vladimir Putin, determinato a dare agli africani l’immagine del leader buono, giocando col grano, vendendolo a prezzi irrisori o addirittura regalandolo ai Paesi amici, in un perverso dare-avere spropositatamente sbilanciato in favore, neanche sarebbe da dirlo, di Mosca.
E così ora in Mali ed in Niger i cittadini acclamano Putin, presunto novello salvatore di un continente “devastato da secoli di crimini e ingiustizie da parte delle potenze coloniali”.
Non è da ora che Putin si interessa all’Africa. Ricordo che nel 2015 il Cremlino firmò accordi di cooperazione militare con 21 Paesi africani, nei quali erano previste anche ingenti forniture agli stessi di armi ed equipaggiamento russo, nonché l’addestramento di ufficiali in Russia, e la presenza sul terreno di “consiglieri militari” moscoviti.
Intendiamoci, non è solo Mosca a coltivare il “Mal d’Africa.
Anche Erdogan vagheggia una ricostituzione di parte dell’Impero Ottomano, e ovviamente anche la Cina, alla perenne ricerca di cibo, di materie prime, di mercati, e adesso anche di basi militari.
Ma rispetto all’Occidente e a Pechino, la Russia (che è e resta una nazione povera) può offrire poco ai Paesi del Sahel al di fuori della mera “forza militare”, il che ha spinto Mosca ad armare e finanziare spesso Gruppi e Stati in lotta fra loro, sovente mettendo in campo i propri “mercenari”, prima la famigerata “Wagner”, e adesso in Niger un nuovo nucleo denominato Africa Corps.
In altre parole la cooperazione militare è lo strumento che Mosca, in assenza di altri mezzi, utilizza in Africa per ottenere vantaggi sull’approvvigionamento di metalli pregiati, pietre e terre rare, ormai fondamentali per le industrie di tutto il mondo, oltre che concessioni minerarie ed estrattive.
E’ del tutto evidente che sia gli Usa che l’Unione Europea si sono lasciati cogliere impreparati dalla deriva filo-russa degli Stati del Sahel.
Ma sarà opportuno che Bruxelles, di fronte all’espansione dell’influenza russa e cinese in Africa, si dia da fare in fretta per riprendere il filo di una politica che, sicuramente sbagliando, ha fidato troppo sul ruolo e sul peso della Francia nella regione.
E per quanto riguarda l’Italia, va considerato che il Niger è uno Stato chiave sulle rotte dei migranti che finiscono per sbarcare sulle nostre coste.
Nel 2015, in collaborazione con l’Unione Europea, il Niger aveva emanato una legge che criminalizzava il traffico dei migranti, norma abrogata in fretta e furia dai golpisti appena arrivati al potere.
Capite bene che, in mano a Putin, i migranti costituiscono un’arma formidabile per destabilizzare l’Italia e le democrazie europee.
Non è certo il caso di lasciargliela usare impunemente!
Umberto Baldo