22 Giugno 2023 - 8.45

Vladivostok: La Russia comincia a pagare il conto alla Cina

Immagino che tutti sappiate dove si trova il porto di Vladivostok (in lingua russa “città che domina l’oriente”).

Siamo nell’estremo oriente russo, e Vladivostok, il più grande porto sull’Oceano Pacifico, è nota alle cronache da un lato perché è stata per anni la base della “flotta sovietica del Pacifico”, e dall’altro perché è il capolinea orientale della mitica “Transiberiana”, la ferrovia che attraversa l’intera Russia.

Ma pochi sanno che il territorio ove sorge la città  fino al 1860 era territorio della Cina, meglio del Celeste Impero.

Questo i cinesi non l’hanno mai dimenticato, non hanno mai scordato che la città allora si chiamava Haishenwai (in cinese costiera dei cetrioli di mare), e che alla fine della guerra dell’oppio, con il Trattato di Pechino, la dinastia Quing dovette cedere il porto ed il territorio adiacente  all’impero russo, di fatto lasciando diverse province cinesi (Heilongjiang e Jilin su tutte) senza sbocco sul mare,  e di conseguenza collegate ai centri commerciali vicini esclusivamente via terra.

Per rendersene conto, come spesso succede, basta semplicemente guardare la carta geografica.

Balza agli occhi che la parte nord orientale della Cina (Manciuria) risulta chiusa dalla Corea del Nord, e da quel lembo di terra russa che si insinua dalla Siberia arrivando appunto a Vladivostok.

Lo so bene che a ben guardare tutti in confini fra gli Stati presentano qualche illogicità, perché sono semplicemente frutto non di spartizioni razionali, etniche o geografiche che siano, bensì di atti di forza, di guerre. 

E’ comprensibile che i Cinesi il trattato di Pechino lo abbiano sempre percepito come un’ingiustizia, un trattato fra “ineguali”, ed infatti i 163 anni trascorsi da allora sono stati anni intrisi di rivendicazioni da parte di Pechino di quei territori perduti. 

Da allora di acqua sotto i ponti siberiani ne è passata, tutto è stato stravolto, ma Vladivostok, alias Haishenwai, è sempre stata saldamente in mano ai russi, che hanno creduto che la chiave per controllare la città fosse quella di isolarla dalla vicina e opprimente influenza cinese.

Ma adesso le cose stanno cambiando.

Infatti sulla base degli accordi commerciali di libero scambio, siglati da Xi Jinping e Vladimir Putin, dallo scorso primo giugno la  Cina può far transitare le proprie merci per Vladivostok senza pagare la dogana. 

L’annuncio ufficiale era stato dato dall’Amministrazione generale delle dogane cinesi prima della data fatidica, specificando che le merci dirette a Zhoushan e a Jiaxing nello Zhejiang, al loro passaggio (importazione temporanea in Russia) non sarebbero state soggetta ai dazi russi.

Un vantaggio enorme, con un solo limite: quelle merci dovranno necessariamente raggiungere le regioni cinesi adiacenti, cioè Jilin e Heilongjiang (Manciuria interna), che non hanno sbocchi sul Mar del Giappone.

Diciamocela tutta, nulla accade per caso.

Vi ho sempre detto che la caratteristica principale dei cinesi è quella di avere la vista lunga, di non fermarsi al contingente, e forse sarà stata la filosofia confuciana che li ha  plasmati per millenni ad insegnare loro a prendere le cose da lontano, a penetrare senza fretta, ad occupare spazi in modo oculato e quasi invisibile.

Ed infatti a partire dal 1992, dopo la fine della guerra fredda, i commercianti cinesi si erano fiondati, riprendendosi il mercato di Vladivostok.

Adesso ad accelerare il processo ci ha pensato la guerra in Ucraina, stoltamente voluta da Vladimir Putin.

E da quando il conflitto ucraino è iniziato, la Russia ha dovuto affrontare sanzioni pesanti da parte dell’Occidente, e quindi è stata obbligata a rafforzare la cooperazione economica con la Cina, che oggi è il suo principale partner commerciale.

Ma a ben guardare lo spartiacque è precedente, e si chiama annessione della Crimea del 2014, che ha spostato il baricentro del Cremlino sempre più a est, arrivando alla firma di storici accordi con la Cina, come l’intesa energetica dal valore di 400 miliardi di dollari. Negli ultimi anni si sono intensificate, inoltre, le esercitazioni militari congiunte; pochi giorni fa, il ministero della Difesa di Pechino ha invitato la controparte russa a un ciclo di esercitazioni denominato Northern-Joint 2023. Il commercio bilaterale tra i due Paesi è arrivato a73,15 miliardi di dollari nei primi quattro mesi del 2023, con un aumento su base annua del 41,3 %.

Particolare di non secondaria importanza, a Vladivostok finisce il gasdotto dell’Estremo Oriente, infrastruttura protagonista di un recente accordo per la fornitura di gas naturale russo alla Cina.

E’ del tutto evidente che l’apertura di Mosca del porto di Vladivostok permette alla Cina di affacciarsi sul Mar del Giappone, rafforzando così le catene di produzione ed approvvigionamento con i Paesi limitrofi, ed in generale con l’area del Pacifico.

Ma oltre agli aspetti commerciali ci sono poi quelli squisitamente politici.

E così nell’apertura di Vladivostok gli Stati Uniti  vedono essenzialmente  un modo per aggirare le sanzioni imposte alla Russia, che però la Cina non ha mai sottoscritto.

Ma è il sentiment con cui i cinesi vivono questa novità ad essere a mio avviso molto più interessante ed illuminante. 

Il  Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito Comunista Cinese, l’ha spiegata così: “Haishenwai è ora diventato ufficialmente un porto di transito all’estero per la Cina”, dunque “questa è una nuova svolta nella cooperazione sino-russa”.  

E ancora, in un altro editoriale pubblicato sullo stesso giornale cinese, si legge: “L’apertura di Haishenwai è stata la migliore notizia per la regione nord-orientale della Cina negli ultimi 163 anni”.

Notate il calcolo degli anni: 163, esattamente quelli da quando nel 1860 Haishenwai (Vladivostok) passò alla Russia. 

E non va sottaciuto che in  Rete hanno iniziato a girare post in cui si afferma che, dopo il successo del ritorno alla Cina di Hong Kong e Macao rispettivamente dalla Gran Bretagna e dal Portogallo, Pechino dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di recuperare dalla Russia Haishenwai (appunto Vladivostock), e addirittura la catena dei Monti Stanovoy  (qui risaliamo addirittura  al Trattato di Nercinsk del 1689).

Queste rivendicazioni sono cresciute tra i netizen cinesi da quando, il 14 febbraio, il ministero delle Risorse Naturali ha pubblicato una nuova versione della sua mappa del mondo, che prevede il ritorno all’uso dei nomi cinesi di otto città e aree occupate dall’Impero Russo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.

E dal nostro punto di vista come la mettiamo?

Viene naturale pensare che questa apertura di  Vladivostok sia una sorta di “ringraziamento”  russo per la posizione di formale neutralità (quanto a quella  sostanziale per me è tutta da vedere) della Cina relativamente al conflitto in corso in Ucraina. 

Ma a mio avviso c’è un’altra lezione da trarre, e cioè che se quella tra Pechino e Mosca era stata ribattezzata  «amicizia senza limiti», l’accordo in questione dimostra come il concetto di amicizia in geopolitica sia sempre fuorviante: perché dietro un dare c’è sempre un avere, e Pechino ora sta andando all’incasso.

Certo dietro c’è sicuramente anche una certa convergenza strategica, in particolare rispetto ai temi del progetto di costruzione del fantomatico nuovo ordine mondiale,  che superi l’annaspante ma tutt’altro che rassegnato potere globale degli Usa. 

Io sono da sempre convinto che l’alleanza con la Cina per i russi sia un azzardo, perché troppo grande è il divario fra le due economie per poter immaginare alla lunga un rapporto paritario.

E può essere che fra qualche anno fra gli stucchi del Cremlino, Putin o il suo successore dovrà porsi questa domanda: quanto è sottile la linea rossa che divide amicizia e vassallaggio?

Umberto Baldo

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