“Wilma dammi la clava!”. I dazi di Donald Trump

Umberto Baldo
Nulla impedisce che in politica possa esserci una certa dose di “inventiva”, di cambiamenti anche radicali rispetto a vecchie prassi o a vecchie impostazioni.
Certo se le “novità” rispondono a distorsioni, o a logiche contorte, allora indubbiamente si crea qualche problema, con il rischio di gravi errori politici.
E’ il caso dei “dazi”, parola che, a quanto sembra, per Donald Trump suona come la più bella del mondo.
Scherzando un po’, quando sento “ciuffo biondo” parlare di dazi mi riaffiora il ricordo dei Flintstones, un cartone animato che riscosse anche in Italia un grande successo negli anni ’60 con il nome di “Antenati”, in cui ogni tanto il capofamiglia Fred urlava: “Wilma, dammi la clava”.
A quanto appare, con la politica dei dazi, ovviamente in aumento, il neo Presidente si propone di raggiungere almeno tre obiettivi contemporaneamente: il rilancio della manifattura Usa, la riduzione del deficit commerciale, e l’accumulo di grandi entrate finanziarie per il Governo.
E lo ha detto chiaro, senza giri di parole, nel suo discorso di insediamento, quando ha promesso di alzarli contro Canada, Messico, Europa, Cina, annunciando contemporaneamente la creazione di un “Servizio delle Entrate Esterne”, una nuova agenzia che si affiancherebbe all’ Internal Revenue Service, l’Autorità americana per la riscossione delle tasse, con l’obiettivo di servire presumibilmente come deposito per le grandi entrate tariffarie che Trump insiste di voler accumulare dai partner commerciali esteri dell’America, per incanalarli verso il finanziamento della sua agenda MAGA.
Se non che, ripensando ai miei studi, mi ricordo che i dazisono imposte indirette che gravano sui consumi, poiché colpiscono la circolazione di prodotti e merci in entrata o in uscita da uno Stato all’altro, o da un gruppo di Stati ad un altro.
Poiché Trump ha frequentato una delle migliori facoltà di economia fra tutte le università statunitensi, dovrebbe aver letto sui libri, e quindi sapere, che le tariffe, o dazi doganali, sono una tassa sulle merci estere vendute negli Stati Uniti, quindi pagata dagli importatori al porto di entrata.
Data questa incontrovertibile verità, almeno per quanto mi riguarda, qualcosa non torna nei ragionamenti di Trump; perché se il Tycoon immagina di riempire le casse del Servizio delle Entrate Esterne con i soldi di soggetti non americani, ha trascurato una considerazione fondamentale: appunto quella che i proventi dei dazi sono raccolti dalle tasche degli importatori nazionali statunitensi , non dai produttori stranieri.
Ne consegue che gli importatori americani o assorbono i costi associati all’aumento dei dazi, e riducono di conseguenza i loro margini di profitto; oppure trasferiscono questi costi ai consumatori statunitensi, sotto forma di prezzi più alti, oppure costringono i loro fornitori stranieri a ridurre i propri margini per mantenere la quota di mercato negli Stati Uniti. E’ sempre possibile, ed anzi probabile, una combinazione di quanto sopra.
Indipendentemente da quale soluzione prevarrà, rimane il punto fondamentale, su cui mi permetto di insistere, che i dazi vengono pagati dalle aziende americane che importano merci estere, per il semplice motivo che il Tesoro degli Stati Uniti non ha certo l’autorità di prelevare le entrate direttamente dalle imprese domiciliate all’estero.
E’ cosa nota che un incremento dei dazi normalmente fa salire il costo delle merci importate, con conseguente aumento dei prezzi per i consumatori Usa, e quindi dell’inflazione.
E questo non è certo in linea con uno dei leit motiv della campagna elettorale di Trump; quello di voler abbassare il costo della vita per gli americani.
Ma allora perché Trump continua ad agitare la minaccia della “clava-dazi” come Fred degli Antenati?
Per il semplice motivo che non è che l’imposizione o l’aumento dei dazi sia ininfluente per i produttori dei Paesi esportatori; perché l’incremento del costo finale del prodotto potrebbe abbassare anche di molto il volume delle merci vendute agli Usa.
E’ quindi molto probabile che la minaccia di utilizzare la “clava dazi” serva al Presidente Usa per spingere i partner commerciali dell’America a fare concessioni politiche.
Un chiaro esempio lo abbiamo visto nei giorni scorsi, quando il Presidente della Colombia Gustavo Petro, dopo aver respinto i voli militari di “rimpatrio” dei migranti illegali, di fonte alle minacce di Trump di imporre dazi fino al 50% sulle merci colombiane, in sole 24 ore ha ceduto al ricatto, consentendo gli atterraggi di voli civili.
D’altronde per una Nazione come la Colombia una tassa del 50% sul caffè sarebbe una catastrofe economica.
E’ vano perdersi in analisi inutili; le minacce, le forzature, il timore reverenziale, sono una sorta di “strategia di marketing” per il “marchio Trump”, e proprio l’imprevedibilità è essenziale a questo “marchio”, rendendo impossibile sapere se e quando ad un latrato seguirà un morso.
Tornando all’apparente fissazione di Trump, secondo la quale i dazi servirebbero a riequilibrare la bilancia dei pagamenti, in linea con la sua idea che il saldo negativo è sinonimo di un Paese debole che si fa rapinare, è bene dire che si tratta di un’idea quanto meno bizzarra.
Bizzarra perché, se fosse vera, grandi Paesi esportatori come Cina e Germania oggi non sarebbero in difficoltà, viste le loro bilance commerciali positive, mentre gli Stati Uniti, nonostante il deficit commerciale a livelli record (310, 9 miliardi di dollari) stanno vivendo una fase economica brillante.
E c’è poi un altro fattore da considerare quando si parla di dazi; il fatto che la globalizzazione ha cambiato completamente il mondo rispetto al secolo scorso.
Mi spiego meglio.
E’ vero che gli americani negli ultimi tempi, anche in virtù dei dazi imposti da Trump nel primo mandato, e confermati da Biden, hanno importato meno dalla Cina; ma hanno comprato di più dagli altri Paesi.
In pratica per aggirare i dazi imposti alle merci cinesi, molte aziende hanno spostato le catene di approvvigionamento in Sud-Est asiatico (Vietnam, Malesia) ed in Messico, che sono diventati nuovi centri di assemblaggio, spesso di componenti cinesi.
E tanto per dire, chi si è avvantaggiata in particolare è stata l’India, che esporta negli Usa senza dazi merci assemblate con componenti importate dalla Cina. Ne deriva che l’India ha un surplus commerciale con gli Usa, a fronte di un deficit verso Pechino.
E non meravigliatevi, ma anche noi europei siamo diventati esportatori indiretti di beni prodotti in Cina.
C’è solo da sperare che, pur non rinnegando il suo “credo protezionista”, ragionevolmente (ammesso che la ragione sia ancora presente nella moderna geo-politica) Trump riservi a noi europei, da sempre alleati degli Usa, un trattamento più favorevole rispetto alla Cina, il che potrebbe creare meno danno alla nostra manifattura.
E qui inevitabilmente arriviamo alla posizione dell’Italia, sulla quale sicuramente dovremo tornare nell’immediato futuro.
Per il momento mi limito a dire che la Germania è prima nella classifica dei grandi esportatori negli Stati Uniti, con ottanta miliardi di euro di avanzo commerciale. Ma l’Italia è terza, ed il nostro surplus commerciale è di quarantatré miliardi di euro.
Trump ha mostrato grande simpatia per Giorgia Meloni, e quindi sarà da vedere come si comporterà con l’Italia.
Il problema vero è che a mio avviso non esiste, come qualcuno immagina o sogna, una via d’uscita “nazionale”, come se fosse possibile modulare i dazi ai prodotti europei senza ricadute dirette anche nel nostro sistema produttivo. Come se l’industria tedesca dell’auto (altra fissazione di Trump) non fosse interconnessa all’indotto produttivo italiano.
Io credo che l’Italia dovrebbe cercare di evitare voli pindarici, facili scorciatoie, fantomatiche “scialuppe di salvataggio tricolori”, perché non esistono, perché siamo troppo integrati in Europa per poter sperare di fare da soli.
In altre parole è inutile illudersi di esercitare il ruolo di pontiere europeo con la destra Usa, anche perché sulle spese della difesa (che Trump vorrebbe al 5%, livello per noi insostenibile) noi non possiamo prescindere da accordi con gli altri Paesi della Ue.
Nulla comunque impedisce a Giorgia Meloni, forte del suo presunto rapporto privilegiato con Trump, di provare a suggerire ai partner come l’Europa dovrebbe parlare con una sola voce.
Umberto Baldo